venerdì 24 febbraio 2012

Da Ti racconto una canzone INCONTRO

INCONTRO

Un rammarico che mi porto dietro da un sacco di tempo è quello di aver incontrato Anna proprio a quell’ora, le cinque del pomeriggio, e in quel luogo, la stazione di Modena in un giorno d’autunno del 1978. Avevo fretta, ma la fretta è cattiva consigliera, d’altra parte assolutamente non potevo perdere quel treno. Nell’emozione dell’incontro non le ho chiesto indirizzo e numero di telefono… ed ora magari ci rivedremo, se mai ci rivedremo, tra altri dieci anni. Ero sceso per cambiare treno a Modena con la voglia pazza, irrefrenabile di un caffè. Il treno che dovevo prendere, poi non ce ne sarebbero più stati fino al mattino, partiva dieci minuti dopo… ma dissi a me stesso che non sarei riuscito a proseguire senza un caffè caldo ristretto e cremoso, non quello schifo che vendono, quando lo vendono, sui treni locali; scesi di corsa le scale, entrai nel bar, buttai giù un espresso, rifeci le scale ancora più di corsa… e in quel momento la vidi. Dieci anni erano passati eppure mi sembrò la stessa. Ma era l’impressione di un momento.
“Anna?”
“Francesco!”
Ci abbracciammo e restammo per un attimo in  silenzio. Una dolce tristezza si era impadronita di noi. Il sole tramontava, all’orizzonte la città sembrava di fuoco, quella città che era stata nostra e in cui da dieci anni, dopo la sua partenza e la fine della nostra breve storia non mettevo piede. Ricordai come un tempo la conoscevo alla perfezione, come l’avevo amata casa per casa, chiesa per chiesa, osteria per osteria, ed ora mi sembrava una città straniera, fredda ed ostile. Per un attimo mi parve di rivivere i momenti del nostro amore durato una stagione, finito così in fretta e senza un motivo preciso. Guardai il muro che fissavo sempre al momento dell’ultimo bacio, cercando le parole che mi erano rimaste impresse nella mente Hasta siempre comandante Che Guevara”, ma sul muro sgretolato e un po’ sconnesso c’era scritto “Moser sei il migliore”.
“Dieci anni che non ci vediamo, ci pensi, Francesco?”
“Già, che bei tempi”
“Io sono andata in America, è vero, ma anche dopo tu non ti sei fatto più vedere”.
“No, Anna, ti ho scritto, ma tua madre ha detto che eri ancora via”.
“Mia madre…” Anna abbassò gli occhi.
Già, sua madre. Ero stato a cena una volta sola a casa di Anna. Marmi, parquet, specchi, lampadari di cristallo, mobili antichi strapieni di  oggetti in vetro di Murano, la servetta di colore con il grembiule nero e la crestina bianca… Ero a disagio con il mio completo blu e la cravatta in tinta unita, io che vestivo sempre in eskimo e maglione… non sapevo se servirle il vino o aspettare che se lo versasse da sola… non sapevo come si mangiavano le ostriche e neppure l’aragosta (che peraltro non mi piacevano, meglio, molto meglio una bella fetta di zampone  da mangiare tirando via la pelle con le mani e portandosela alla bocca per poi succhiarsi le dita)… non sapevo cosa dire e finimmo per parlare come due vecchi… come i genitori di Anna che mi scrutavano severi scotendo la testa. Che sollievo quando uscimmo a passeggiare… avevo davvero bisogno di una boccata d’aria… Hemingway… Pavese… l’Inter… i compagni di scuola… l’America tanto sognata e mai vista… che ci illudevamo di trovare in questa città che all’improvviso mi parve tristissima. Un freddo bestiale, Mulinelli di cartacce portate dal vento, i clacson delle auto sul piazzale. Luci fredde e tristi come quelle di un presepe il giorno dell’Epifania, ma quelle luci illuminavano il viso di Anna… sembrava che qualcuno le avesse accese per noi.
“Cosa mi racconti, Anna, ti sei sposata?”
“Ho sposato Alberto, ma…”
“No! Alberto no –pensai con amarezza- brutto, grasso, ricco, antipatico, pieno di sé, fascista di merda, sempre a buttarci in faccia le sue ditte, le sue macchine le sue donne…”
“Ma…?” chiesi con un filo di voce.
“Ma è durata sei mesi… ci siamo sposati a fine giugno e la mattina di Natale si è tirato un colpo di pistola. Diceva che non mi reggeva, che ero una stronzetta, tutto perché non gli permettevo di portare in casa le sue troiette e una volta ho telefonato a suo padre. Non ci siamo mai amati, Fra, ho seguito i consigli dei miei; dicevano che era un buon partito, che non avrei fatto la fame, che… ”
Facevo fatica a sentire le sue parole, sembrava che il buio le inghiottisse.
Quante volte avevo vissuto situazioni del genere nei film che piacevano ad Anna e che io detestavo? Nei romanzi che leggevo io no, una storia del genere sarebbe potuta comparire solo in un romanzo scritto male.
“Mi spiace Anna”
“Grazie Francesco, ma non importa, tu piuttosto?”
“Io… sempre lo stesso. Scuola, chitarra, partito… cazzo il treno, scusami Anna, se perdo questo sono fottuto”.
La strinsi forte in un abbraccio… senza parlare.
In treno ero solo nello scompartimento. Il vagone rullava come una barca. Mi immersi nei miei pensieri. Anna… la mia giovinezza… il nostro amore… la vita è come un treno, si va, si va, ma non conosciamo la destinazione…  portiamo con noi come bagagli i sogni, le illusioni di un momento… il treno corre nella notte ed ogni tanto ci pare di intravedere una luce nel buio, ma quando la mettiamo a fuoco è già lontana. Ciò che è stato reale si fa simbolo e rimane dentro noi. Siamo fragili e mortali, ma qualcosa sopravvive.




Incontro
(Francesco Guccini)
E correndo mi incontrò lungo le scale, quasi nulla mi sembrò cambiato in lei,
la tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due.
Il sole che calava già rosseggiava la città
già nostra e ora straniera e incredibile e fredda:
come un istante "deja vu", ombra della gioventù, ci circondava la nebbia...

Auto ferme ci guardavano in silenzio, vecchi muri proponevan nuovi eroi,
dieci anni da narrare l'uno all' altro, ma le frasi rimanevan dentro in noi:
"cosa fai ora? Ti ricordi? Eran belli i nostri tempi,
ti ho scritto è un anno, mi han detto che eri ancor via".
E poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia...

E le frasi, quasi fossimo due vecchi, rincorrevan solo il tempo dietro a noi,
per la prima volta vidi quegli specchi, capii i quadri, i soprammobili ed i suoi.
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway,
il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste:
la mia America e la sua diventate nella via la nostra città tanto triste...

Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accesi forse per noi lì
ed infine, in breve, la sua situazione uguale quasi a tanti nostri films:
come in un libro scritto male, lui s' era ucciso per Natale,
ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio:
povera amica che narravi dieci anni in poche frasi ed io i miei in un solo saluto...

E pensavo dondolato dal vagone "cara amica il tempo prende il tempo dà...
noi corriamo sempre in una direzione, ma qual sia e che senso abbia chi lo sa...
restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento,
le luci nel buio di case intraviste da un treno:
siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno..."

Questa canzone è stata incisa da Francesco Guccini, dai Nomadi, da Roberto Vecchioni  e da Enrico Ruggeri


venerdì 17 febbraio 2012

Da Ti racconto una canzone PARABOLA

PARABOLA

“In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile”.  (Dal discorso di Eugenio Montale all’Accademia di Stoccolma in occasione del conferimento del premio Nobel per la letteratura 12.12.1975)

Pochi lo sanno (del resto i libri non lo dicono e chi gli sta attorno cerca di parlarne il meno possibile), ma il Boss, il Vecchio, il Capo, il Creatore… insomma Lui, quale che sia il nome con cui lo vogliamo chiamare, nei primi tempi del suo matrimonio ebbe una brevissima relazione con una signora sposata. Relazione fuggevole, finita quasi subito, ma dalla quale gli nacque un figlio. Essendo noto per la sua saggezza oltre che per la sua infallibilità il Vecchio cercò di tener nascosta la nascita di questo figlio a cui fu messo nome Poeta. Non c’è bisogno invece che vi dica, in quanto è risaputo, che da sua moglie ebbe un figlio “legittimo” come si usava dire all’epoca, che venne chiamato Ragioniere. Ragioniere crebbe serio, quadrato, “algebrico” come amava dire il Capo,  geniale e sagace, ma senza un minimo di fantasia; si laureò in Economia  Aziendale con un master in America ed in Ingegneria Informatica sempre negli Stati Uniti. Ragioniere affrontava tutti i problemi usando una razionalità esasperata, riusciva a trasformare tutto in algoritmi, equazioni, teoremi. Anche Poeta si laureò (una laurea in lettere ed un diploma di Conservatorio in arpa, chitarra e flauto, ma era sempre assorto nei suoi pensieri, nei suoi sogni, la testa tra le nuvole, lo sguardo perso. Gli trovarono un posto nell’azienda paterna: tante parole… tante estatiche riflessioni sul chiaro di luna o sulla bellezza delle foglie rosse in autunno… ma nulla di costruttivo.  Il Boss, preoccupato che qualcuno facesse andare avanti la baracca il giorno in cui gli fosse venuto l’uzzolo di ritirarsi (e sto parlando dell’Universo s.p.a., mica di un’impresa qualsiasi) si compiaceva di Ragioniere in cui vedeva la sua immagine riflessa come in uno specchio, mentre non faceva nulla per nascondere quanto poco sopportasse la nebulosa vacuità di Poeta. Si respirava in casa del Boss ed anche in ditta un po’ di tensione, di malcontento più intuito che detto apertamente, ma non credo che la situazione sarebbe precipitata se quella dannata sera…

Già, tutto cominciò la sera in cui Margherita, una ragazza dolce, semplice, ingenua e romantica, viso sereno, grandi occhi castani, capelli ricci, anziché passare la sera in casa a guardare la TV come faceva sempre, decise di fare una passeggiata nella brughiera. Ancor oggi Poeta maledice quell’uscita e soprattutto il momento in cui i due si incontrarono, ma non ha senso piangere sul latte versato. Fu un’ora dolcissima, al chiaro di luna, nell’aria vellutata della notte. Poeta cominciò a parlare della magia del cielo stellato, delle rose che profumavano per contribuire all’incantesimo della loro tenera passeggiata, del sentimento che lui sentiva di provare per lei, rosso ed intenso come un’azalea. Margherita ascoltava estasiata… Decisamente Poeta con le parole ci sapeva fare, continuava ad inanellare fiori, profumi, colori. Ad un certo punto le prese la mano.
“Guarda laggiù, Margherita… cosa vedi?”
“Ma… io non vedo nulla”
“Infatti non c’è nulla, null’altro che la brughiera. Ma io tenendoti la mano e guardandoti negli occhi sto creando un fiume, un fiume tutto nostro che attraverserà la brughiera. Guarda, Margherita, lo vedi il fiume?”
“Sì, amore, lo vedo” disse lei appoggiando la testa sulla sua spalla. “E’ meraviglioso” sussurrò chiudendo gli occhi e stringendosi a lui.
Poeta la baciò dolcemente poi si alzò ed entrò agitatissimo nello studio del padre che aveva l’abitudine di restare in ufficio fino a tarda sera per rivedere al computer i conti della giornata.
“Buonasera padre”
“Toh chi si vede, buonasera Poeta… che ci fai in ufficio a quest’ora?”
Poeta non riusciva nemmeno a parlare da tanto era agitato.
“Volevo dirti, padre che… da questa notte ci sarà un nuovo fiume… un fiume nella brughiera, là dove finisce la valle”.
Il padre lo guardò esterrefatto, il sigaro penzoloni tra le labbra.
“Ma sei scemo? Un fiume nella brughiera? Non ci sono fiumi nella brughiera, vuoi insegnarlo a me? I fiumi li ho creati io… saprò bene dove li ho collocati”.
Poeta si sentì montare dentro una rabbia come non gli era mai capitato prima. Era lui stesso stupito ed incredulo di quanto stava dicendo.
“Padre, Signore Dio, mi hanno sempre insegnato che sei onnipotente… e però stavolta non riuscirai a levare questo fiume dal suo cuore. Ti sfido. Prova se sei capace a toglierci questo fiume e questo amore”.
Il Boss rimase un attimo in silenzio. Non voleva farsi fregare dall’emotività, lui che era noto per la sua saggezza infallibile.
Socchiuse l’uscio dell’ufficio accanto al suo dove il figlio era seduto in poltrona, gli occhi incollati al video del computer.
“Ciao Ragioniere, ti disturbo?”
“Ciao pa’, entra, tu non disturbi mai… stavo rivedendo il bilancio del…”
“Lascia perdere il bilancio, figliolo, ho bisogno di te. Temo che tuo fratello ne abbia combinata una delle sue, va’ fuori a vedere cosa succede”
Margherita aveva sentito tutto e piangeva in silenzio, raggomitolata su una panca dell’orto. Poeta andava avanti e indietro nervosamente.
Ragioniere non ebbe bisogno di fare domande. In un attimo aveva intuito tutto ed istantaneamente aveva trovato la soluzione.
Tolse la Ferrari dal garage e  parcheggiò proprio davanti a Margherita.
“Ciao piccolina, che ti succede? Non sia mai che una bella ragazza come te pianga nel cortile di casa mia… sali… andiamo a vedere l’alba in Riviera, mangiamo una focaccia di Recco, poi…”
Margherita, si asciugò gli occhi e salì in macchina. Ragioniere partì sgommando.
Dopo l’alba e la focaccia di Recco i due trascorsero una lunga giornata sulla spiaggia, poi a mezzogiorno Ragioniere portò Margherita a pranzo nel locale più esclusivo di Portofino. Trascorsero l’intera nottata a fare l’amore nella suite di un hotel a cinque stelle.
Il giorno dopo Ragioniere portò Margherita a casa e la presentò al padre.
“Celebrerò io stesso le vostre nozze” disse il Vecchio. “Voi siete saggi, siete giusti, avete capito come va il mondo… ed il mondo erediterete. Sono fiero di voi, ragazzi. Un giorno tutto questo sarà vostro e l’azienda andrà avanti”.
Poeta che fino a quel momento aveva ascoltato a testa bassa alzò gli occhi e fissò il padre.
Non riuscì a proferire parola perché questi lo fulminò con gli occhi.
“Quanto a te, giara vuota, parolaio, buono a nulla, mangia pane a tradimento, acchiappanuvole, poeta… io ti maledico. Sei inutile e ciò che è inutile è nocivo. Che tu sia maledetto, ripeto. Tu non crescerai, non maturerai, non invecchierai se non col corpo, ma di testa… per tutta la vita tu avrai sempre vent’anni. Quanto alle donne… ne conoscerai, ne frequenterai, ne scoperai, ne sposerai… ma amerai sempre e soltanto Margherita.






 PARABOLA

Con la moglie dal quale ruppe subito
ma non in tempo per evitare
che gli nascesse un figlio naturale
Era vecchio, era saggio e non sbagliava
mai e ben che fosse falsa moneta
tacque con tutti e lo chiamò poeta
da sua moglie ebbe poi un figlio vero
uno che aveva sempre ragione
e per questo ragioniere fu il suo nome
ragioniere cresceva molto algebrico
poeta aveva lo sguardo assente
parlava tanto ma non rendeva niente
Ragazza ragazza perché tu quella sera
giravi da sola per tutta la brughiera?
Ragazza dovevi restare a casa muta
adesso c'è chi piange d'averti conosciuta
e poeta le disse: "Margherita, qui c'è la luna
che ci fa lume vieni a giocare
inventeremo un fiume"
come attore non era proprio l'ultimo
e le confuse tutte le idee
facendo sfoggio di rose e di azalee
E poi corse dal padre subito a dirgli:
"Ho fatto un fiume di primavera,
oltre la valle, dentro la brughiera"
"Che scemenza è mai questa, figlio mio,
no non c'è un fiume nella brughiera,
lo so per certo li ho fatti tutti io"
"Io, padre, ti sfido, se tu sei il creatore
tu prova a levarlo quel fiume dal suo cuore
io padre ti sfido, se sei l'imperatore
tu prova a levarci quel fiume e questo amore"

Era vecchio era saggio e non sbagliava mai
prese da parte il figlio accorto
gli tolse il libro cassa e lo mandò nell'orto
là, nell'orto, piangeva Margherita
soffriva tanto che lui la portò al mare
il mare è facile, c'è poco da inventare
e fu il vecchio a benedir le nozze dicendo:
"Andate figli della terra
voi siete giusti e non avete guerra"
Poi rivolto all'infame parolaio
lo cacciò via coi gesto di una mano
la giara vuota non serve più a nessuno
"Per il mondo ch'è mio ti maledico
avrai vent'anni tutta la vita
ma non potrai che amare Margherita"
Questa canzone è stata incisa da Roberto Vecchioni



venerdì 10 febbraio 2012

Da Ti racconto una canzone PROSPETTIVA NEWSKIJ


PROSPETTIVA NEWSKIJ
Ho un ricordo bellissimo di una gita, o meglio di un viaggio di istruzione che ho fatto da ragazzo in Unione Sovietica, quando ero Pioniere. Estata unesperienza indimenticabile, non solo perché a quelletà qualunque viaggio in terre lontane lo diventa, ma anche perché mi ha fatto vedere da vicino una realtà politica che neppure immaginavo, ma che tante volte avevo pensato ed idealizzato. Quel viaggio mi ha profondamente cambiato. Un maestro mi parlò per giorni e giorni, ma solo la frase che mi disse a tu per tu poco prima del nostro ritorno in Italia ha lasciato un segno nel mio cuore. Da allora sono ancora di sinistra, ci mancherebbe, ma lo sono in maniera diversa, più consapevole e senza fette di salame sugli occhi.
Il ricordo più vivo ed insistente di San Pietroburgo (ma al tempo in cui io lho visitata si chiamava ancora Leningrado) è il freddo.  Trenta gradi sottozero, un vento gelido che imperversava spazzando le vie e le piazze di questa antica e bellissima città. Ricordo lo stupore con cui guardavamo enormi cumuli di neve che il vento accatastava contro i muri e poi disintegrava come se una raffica di mitra li avesse colpiti. Le guardie rosse accendevano fuochi per tenere lontano i lupi (almeno così ci avevano detto e così a noi piaceva pensare). Nonostante il freddo uninterminabile fila di vecchine col rosario in mano si avviava verso la cattedrale. Le tre ragazze del nostro gruppo avevano voluto assistere alla messa ortodossa, ma noi, memori di unesperienza simile vissuta in Jugoslavia nellestate precedente, avevamo preferito aspettare fuori, seduti sui gradini. Fissavamo, forse senza vederlo, un enorme ritratto di Nijnshisky, prematuramente scomparso. che campeggiava davanti a noi. Il più audace dei nostri amici russi ci raccontava sottovoce in un inglese appena comprensibile del suo impresario che si innamorò prima dei balletti russi e poidel bellissimo ballerino.
Dalle finestre illuminate riuscivamo ad intravedere anziane donne curve su telai del secolo scorso, assorte, silenzioselo spettacolo mi affascinava e quasi mi commuoveva, mai però come due giorni prima (ed ancora non riuscivo a crederci) quando passeggiando con alcuni compagni sulla prospettiva Newskij mi trovai ad un tratto faccia a faccia col mio musicista preferito: Igor Strawinsky. Ero rimasto così sorpreso, scioccato, stupito che non avevo neppure aperto bocca. Non gli avevo detto nientelo avevo guardatolui mi aveva lanciato unocchiata distratta ed aveva proseguito per la sua strada. Che idea ci dicevamo tra noi ragazzi- organizzare un viaggio del genere proprio dinverno…” Qualcuno ricordo che disse beh, altrimenti che gusto ci sarebbe? Non siamo un partito nato e temprato nella lotta?Già perché non eravamo lì in gita di piacere, anche se facevamo di tutto per divertirci tra coetanei; eravamo lì mandati dal Partito per studiare e conoscere da vicino la realtà del primo paese al mondo che aveva creato il socialismo e che lo stava applicando con coraggio e coerenza, anche a costo di sacrifici immani.
Questa consapevolezza ci faceva accettare molte cose: dagli orinali sotto il letto (anche i più poveri di noi ormai avevano il bagno in casa, ma eravamo orgogliosi di provare a vivere per dieci giorni da compagni) ai film di Einsenstein che ogni sera ci venivano proposti dalla guida locale prima dellimmancabile cineforum. E se Alexander Newski ci aveva entusiasmati, non così in coscienza ci sentivamo di dire di Ottobreo della mitica Corazzata Potemkin. Lodavamo la potenza delle scene, loriginalità delle inquadrature, la perfetta visione ideologicama dentro di noi sognavamo un western o un film di fantascienza dellodiata America capitalista.
Un altro ricordo bellissimo sono i pomeriggi di studio. Tutti assieme, in una stanza illuminata da lampade a petrolio (certo che abbiamo lelettricità, ci mancherebbe--diceva la guida- solo che per risparmiare la utilizziamo solo di serail pomeriggio possono bastare le candele e le lampade a petrolio). Lezioni di marxismo-leninismo abbastanza scontate, ma era interessantissimo il momento del dibattito: sentire le domande che venivano dai compagni russi e dai compagni di altri paesi dellest mi dava la misura della differenza tra il socialismo stampato nei libri e la sua applicazione praticaio ed i miei compagni cercavamo di non intervenire, ma ascoltavamo sempre con piacere.
Ho serbato per ultimo quello che è stato per me il momento più emozionante di tutta questa esperienza. Era lultimo giorno (ci penso dopo tanti e tanti anni ed ancora mi vengono i brividi); stavo guardando fuori dalla finestra ed allimprovviso il maestro che per giorni ci aveva spiegato i presupposti teorici del marxismo, le conquiste della rivoluzione e la grandezza innovativa del cinema sovietico venne alle mie spalle e mi strinse un braccio.
Ho apprezzato la tua sincerità, compagnosei uno dei pochi che non ha detto che qui tutto va bene.
La ringrazio, compagnobalbettai confuso.
Sta scendendo la notte, compagnomi disse. Tacque un attimo e soggiunse: cè buio fuori e cè buio in questa stanza. Ancora un lungo silenzio che io mi guardai bene dallinterrompere, perché mi sembrava di capire cosa volesse dirmi, ma non ne ero sicuro. Abbassò la voce e proseguì: noi qui abbiamo avuto una nave che si chiamava Aurora, da voi uno dei simboli del socialismo è il sole dellavvenire”… ma io qui…” E si interruppe.
Mi feci coraggio.
Qui lei, compagno vede solo limbrunireè questo che vuol dire?
La guida annuì.
Compresi allora il suo insegnamento.  In effetti è difficile quando ci si trova immersi nel tramonto pensare allalba.
  
Prospettiva Nevskij
 (Franco Battiato)
Un vento a trenta gradi sotto zero
incontrastato sulle piazze vuote e contro i campanili
a tratti come raffiche di mitra
disintegrava i cumuli di neve.
E intorno i fuochi delle guardie rosse accesi
per scacciare i lupi e vecchie coi rosari.
E intorno i fuochi delle guardie rosse accesi
per scacciare i lupi e vecchie coi rosari.
Seduti sui gradini di una chiesa
aspettavamo che finisse messa e uscissero le donne
poi guardavamo con le facce assenti
la grazia innaturale di Nijinsky.
E poi di lui si innamorò perdutamente il suo impresario
e dei balletti russi.
E poi di lui si innamorò perdutamente il suo impresario
e dei balletti russi.
L'inverno con la mia generazione
le donne curve sui telai vicine alle finestre
un giorno sulla prospettiva Nevskij
per caso vi incontrai Igor Stravinsky.
E gli orinali messi sotto i letti per la notte
e un film di Ejzenstejn sulla rivoluzione.
E gli orinali messi sotto i letti per la notte
e un film di Ejzenstejn sulla rivoluzione.
E studiavamo chiusi in una stanza
la luce fioca di candele e lampade a petrolio
e quando si trattava di parlare
aspettavamo sempre con piacere.
E il mio maestro mi insegnò com'è difficile trovare
l'alba dentro l'imbrunire.
E il mio maestro mi insegnò com'è difficile trovare
l'alba dentro l'imbrunire.
Questa canzone è stata incisa da Franco Battiato, da Alice e dai Bluvertigo


venerdì 3 febbraio 2012

Da Ti racconto una canzone FIORI D'ARANCIO

FIORI D’ARANCIO


Signore e signori buona sera. La nostra rubrica “Il caso della settimana” è dedicato stasera alla “sposa senza nozze", come ormai tutti la chiamano. In esclusiva assoluta abbiamo qui con noi la ragazza di cui tutta la città ha parlato a proposito ed a sproposito in questi ultimi tempi. Prego Sabrina, vieni avanti ed  accomodati su questa poltrona.
 Buonasera a tutti. Mi sono decisa ad intervenire a questa trasmissione di Telesicilia per raccontare come sono andate veramente le cose in una brutta storia che mi ha vista protagonista e che mi ha toccato profondamente. Mi chiamo Sabrina Spampinato. Oddio, in realtà mi chiamo Rosaria Carmela Agata Spampinato, ma ho sempre odiato questi nomi e, fin da piccola ho chiesto a tutti di chiamarmi Sabrina e con questo nome sono conosciuta. Sono qui stasera perché sono stufa di essere la favola della città. So che ultimamente tutta Catania ha riso alle mie spalle, e me ne dispiace, ammetto di essere stata una cretina e ne ho pagato le conseguenze, ma non so quante tra le ragazze di Catania che mi ascoltano in questo momento , al mio posto si sarebbero comportate in maniera diversa.
 Sabrina, scusa se ti interrompo, vuoi raccontare ai nostri telespettatori come hai conosciuto il tuo promesso sposo?
Ecco… Tutto è cominciato pochi giorni prima della festa di S. Agata. Ero andata alle Cererie con mia sorella e mia cugina per acquistare dei ceri da regalare alla mamma… e lì per la prima volta ho incontrato quel signore… non mi va nemmeno di pronunciarne il nome… va bene.. lo dico…Pippo Barone.
 Sabrina, tu sapevi vero che era ricchissimo? La sua macchina probabilmente è la prima cosa che ti ha colpito…
No. Le prime cose che mi colpirono di lui furono l’eleganza ricercata, le mani perfettamente curate, le labbra sottili che lasciavano intravedere trentadue denti bianchissimi e prefetti, ma soprattutto il suo sarcasmo violento, feroce che anziché infastidirmi mi fece innamorare a prima vista.  Si avvicinò a noi, cominciò a parlare di letteratura, poi di cinema, ci offrì una granita al limone… parlava anche a mia sorella e a mia cugina, ma si rivolgeva più volentieri a me. Io non avevo occhi che per lui… nonostante avesse una decina di anni più di me mi sembrò da subito l’uomo della mia vita. Parlava poco, aveva una erre rotata, ma non la nostra erre siciliana così marcata, no, una erre francese e lui su questo accento ci giocava… qualunque parola pronunciasse faceva cadere l’accento sull’ultima sillaba: il gelatò… il cinemà… la granità… Parlava poco, ma le sue battute taglienti che avrebbero potuto offendere qualcuno… a me affascinavano. La sera stessa venne a casa mia con un enorme vassoio di cannoli per papà ed un mazzo di fiori per la mamma: chiese a mio padre il permesso di frequentarmi e mio padre disse sì.
Senza chiedertelo, Sabrina?
Infatti. Premesso che questo fidanzamento mi riempì comunque di gioia, di emozione e di entusiasmo, voglio sottolineare che io non sono neppure stata consultata. Oramai,  ma è troppo tardi, mi sono resa conto di una cosa: quando mi fissava un appuntamento non era tanto interessato a me, ma godeva a scegliere tempi e luoghi particolari.
Ci vuoi fare qualche esempio di quello che dici?
Una domenica mi diede appuntamento alle otto di mattina da Sawia, in via Etnea. Era dicembre, puntai la sveglia alle sei e  mezza per farmi bella e piacergli di più…e mi alzai che era ancora buio. Mio padre stava per dirmi di tornare a letto, ma quando seppe che andavo ad un appuntamento con Pippo Barone trovò logico e normale questo orario. Quella volta attraversai mezza città deserta e silenziosa, arrivai in perfetto orario (Pippo impeccabile in un abito blu era già davanti al locale) e facemmo colazione da soli, mentre i camerieri ancora sistemavano sedie e tavolini, poi mi diede un bacio e mi disse “perdonami,  Sabrina, ma ho un impegno” e sparì nella bruma invernale. Un’altra volta mi disse di trovarmi a mezzogiorno da Ricordi in via s. Eupilio. Rimase fini alle due e mezza a guardare dischi di musica classica (io avevo una fame che mi sarei mangiata la commessa), poi mi baciò appassionatamente e si infilò in un taxi. E che dire di una sera alla stazione centrale? O di una merenda al chiosco Giammona in piazza Jolanda? Proprio lì, dopo aver preso tre cannoli ed un caffè doppio con la panna mi prese la mano, mi infilò al dito questo anello (“prego la telecamera di inquadrarlo” e mi disse: “Sabrina, amore, vorresti sposarmi?”
Non ebbi tempo di rispondere che lui già proseguiva: “Oh grazie tesoro, ci contavo, sapevo che avresti detto di sì. Ci sposeremo il dodici maggio, alle nove e trenta, nella chiesa del Cristo Re”.
“Ma…” dissi io.
“Ma niente. Parla ai tuoi e prepara l’abito, a tutto il resto ci penserò io”.
Sabrina di’ la verità, cosa hai pensato in quel momento?
Ho pensato che sposavo un uomo onesto e sicuro di sé.
Sabrina non piangere (APPLAUSI) ora mandiamo la pubblicità poi ci racconti cosa è successo il dodici maggio.
PUBBLICITA’
Allora Sabrina il pubblico a casa vuol sapere dell’organizzazione del tuo matrimonio.
Beh prima del dodici maggio il signor Barone è venuto a casa nostra ed ha chiesto a mio padre di occuparsi di tutto, perché lui doveva partire per un viaggio d’affari in Brasile.
Che tipo di affari Sabrina?
Non lo so, non ce lo disse
Scusa Sabrina ci stavi dicendo che Barone venne a casa tua?
Sì, è venuto ad accertarsi che tutto fosse a posto: inviti, bomboniere…
La casa, immaginiamo…
No, la casa no, disse che saremmo andati a stare in una sua villa fuori Catania, ma non me l’ha mai fatta vedere, diceva che doveva essere una sorpresa… che l’avrei vista entrandoci in braccio a lui la sera del nostro matrimonio.   
Ecco Sabrina ora siamo arrivati al momento centrale di questa intervista… cosa è successo il dodici maggio?
Il dodici maggio io mi sono alzata prestissimo, il giorno prima avevo preso accordi col parroco della chiesa del Cristo Re per i fiori… tutto l’altare era circondato di fiori d’arancio, io sono entrata al braccio di papà col mio abito di seta e di organza…
A che ora Sabrina? 
Alle nove e trenta, come aveva detto il signor Barone. La chiesa era piena di invitati, tutti di parte nostra, il mio sposo non aveva invitato nessuno, non aveva parenti né amici diceva. Passò un’ora… La gente cominciava a sbadigliare… poi a mormorare… poi a fare delle battute… io immobile davanti all’altare mi sentivo morire. Ci restai un’ora e mezza.
A cosa pensavi Sabrina?
Ma… non riuscivo a pensare a niente… cioè pensavo al giorno in cui mi ha chiesto di sposarlo, al mio vestito, mi chiedevo se gli sarebbe piaciuto… guardavo la faccia del prete che non parlava, ma era imbarazzatissimo… mai visto una persona così imbarazzata…
Ma non avete pensato di telefonargli?
Non aveva telefono, odiava il telefono.
E poi, Sabrina?
E poi niente. Il sacrestano andò dietro l’altare a dire all’organista di non intonare la marcia nuziale, io mi sentii male… mi sembrava di sentire suonare un requiem… non ricordo che mi disse la gente, ma mi pareva che mi facessero le condoglianze.
Sabrina hai più visto Pippo Barone?I giornali hanno detto che sai dov’è… che dietro questa messinscena c’è tutta una storia…
Non so niente. So solo che quello doveva essere il giorno del mio matrimonio.

NOTA Non ho mai visitato Catania. Di questa bellissima città (da me sempre e soltanto attraversata in pullman) conosco solo i micidiali campi di calcio lavici del CSI su cui si giocò la Joy Cup del 2003. Tutte le informazioni contenute in questo racconto provengono dalla mia amica Anna Vigo che ringrazio di cuore.



Fiori d’arancio
(Carmen Consoli)

Aveva uno sguardo intenso e diretto,
le dita curate e un sarcasmo congenito,
labbra sottili, armonioso contorno
di denti bianchi e perfetti.
Poche parole, eleganza nei modi,
una lieve cadenza d’oltralpe e dominio di sé.

Gli incontri divennero assidui e frequenti,
nei luoghi e agli orari più insoliti.
Quell’uomo intrigante teneva le redini
con singolare destrezza.

Pochi preamboli quando mi chiese:
“vorresti sposarmi?”, era onesto e sicuro di sé.

Ricordo il giorno del mio matrimonio,
l’abito bianco di seta ed organza,
fiori d’arancio intorno all’altare,
aspettavo il mio sposo con devozione.

La chiesa gremita di gente annoiata
per l’interminabile attesa.
Alle mie spalle sbadigli e commenti
e di lui neanche l’ombra lontana.

Pochi preamboli quando mi chiese:
“vorresti sposarmi?”, era onesto e sicuro di sé.

Ricordo il giorno del mio matrimonio,
l’abito bianco di seta ed organza,
nessuno sposo impaziente all’altare,
soltanto un prete in vistoso imbarazzo.
Ricordo il giorno del mio matrimonio,
l’abito bianco di seta ed organza,
nessuno sposo impaziente all’altare,
soltanto un prete in vistoso imbarazzo.

Ricordo il giorno del mio matrimonio,
l’abito bianco di seta ed organza,
nessuna marcia nuziale,
soltanto il mio tacito requiem
e immenso cordoglio

Questa canzone è stata incisa da Carmen Consoli