venerdì 30 marzo 2012

QUESTO PICCOLO GRANDE AMORE

INTRODUZIONE


Quando nel 1971 uscì il 33 giri “Questo piccolo grande amore” di Claudio Baglioni io sono stato tra i primi a scoprirlo e per me è stata una scoperta emozionante. Per la prima volta un cantautore usava un disco non per metterci i suoi successi, più qualche canzone un po’ moscia, più quei due o tre pezzi che la radio non avrebbe mai trasmesso, ma per raccontare una storia con un inizio, uno sviluppo ed una fine, una storia che aveva il profumo dell’autobiografica autenticità. Già qualcosa di simile (un disco a tema) lo avevano fatto Giorgio Gaber con “Il Signor G.”,  Fabrizio de André con “La buona novella”, i New Trolls con le poesie di Mannerini in “Senza orario senza bandiera” e gli spagnoli “Aguaviva”, bravissimi, ma quasi del tutto ignorati in Italia (anni fa li sentii svillaneggiare dalla Smemoranda, insieme ad altri illustri sconosciuti per aver cantato al festival di Sanremo una canzone di Al Bano, ma gli “Aguaviva” erano ben altro…gli Aguaviva hanno messo in musica poeti del calibro di Rafael Alberti, Nazim Hikmet, Tagore, altro che Al Bano…) ma nessuno dei grandi artisti che ho appena citato era stato così realistico nel trattare, come in questo caso, un’avventura tipo di un ventenne qualunque.
Da subito “Questo piccolo grande amore” mi era parsa la trama ideale per un romanzo e da anni io progettavo di scriverlo: proprio perché il disco mi era piaciuto moltissimo, a parte la canzone furbetta che dà titolo al lavoro e che divenne famosissima, creando ahimè il mito di Baglioni cantante dell’adolescente sfigato in amore che gli sarebbe rimasta attaccata per anni costringendolo a clonare decine di pezzi identici tra loro da “Amore bello” a “Sabato pomeriggio”  da “Tu come stai” a “Solo” ecc..
Ho scritto “ahimè”: infatti già nel disco successivo c’era più mestiere, più astuzia, ma solo tre canzoni che conservavano l’autenticità del lavoro precedente: “Oh Merilù” e “Lampada Osram”, che io ho inserito in questo romanzo breve come “flashback” di avventure precedenti dei due protagonisti e la deliziosa, simpaticamente caciarona e maschilista “W l’Inghilterra” a cui non sono riuscito, e me ne dispiace, a trovare una collocazione nella mia storia.

In seguito, proprio perché il mestiere ed il calcolo discografico hanno preso il posto dell’ispirazione,  non sarei più riuscito ad apprezzare Claudio Baglioni… ma questa è un’altra storia.
 



INDICE





     1) MARZO
-         sabato: Piazza del Popolo 
                       Una faccia pulita
-         domenica: Battibecco
PRIMO FLASHBACK: (Camilla ricorda): Lampada Osram
- mercoledì Con tutto l’amore che posso
2)    APRILE Che begli amici
SECONDO FLASHBACK: (Claudio ricorda): Oh Merilù
                          Mia libertà
3)    LUGLIO La prima volta
4)    AGOSTO Quel giorno
                       Io ti prendo come mia sposa
                            Cartolina rosa
5)    SETTEMBRE  Questo piccolo grande amore
6)    OTTOBRE
     Domenica
-         Mattina  Porta Portese
-         Mezzogiorno Quanto ti voglio
-         Pomeriggio Sembra il primo giorno




1)

 

 

 

Marzo




Sabato

 

Piazza del Popolo



Nel ricordo rivivo quella mattina come una giornata di sole, serena e calda (beh…oddio… calda come può essere calda una mattina di marzo…), ma ripensandoci potrebbe benissimo non essere stato così. Sarà un caso, ma tutti i ricordi della mia giovinezza hanno come sfondo mattine luminose, col cielo terso ed una brezza deliziosa.

Quello invece di cui sono sicuro (fu la prima cosa che notai) è che a Piazza del Popolo c’erano meno turisti del solito, la manifestazione li aveva forse spaventati o dirottati su altri punti della città; in compenso, quando ci sono arrivato io verso le dieci la piazza era già piena di manifestanti: studenti universitari e delle superiori, qualche operaio, un gruppo di disoccupati. A quel tempo avevo vent’anni, un diploma di ragioniere, nessun lavoro in quanto non ero militesente e, come molti miei coetanei, ero un po’ imbranato. Sì sì, hai capito bene: imbranato. Capisco le tue obiezioni: anch’io leggevo ogni settimana sull’Espresso, gli articoli che parlavano della mia generazione: “i fratelli minori dei sessantottini… i primi ad andare in vacanza da soli, a provare l’erba, a vivere una sessualità più libera rispetto a quella dei loro padri” e tutte quelle storie lì… beh io “sociologicamente” ero forse un’eccezione, ma, pensando ai miei amici di allora, di eccezioni come me ne ricordo parecchie. Ero di sinistra, perché allora tutti i giovani erano di sinistra tranne ovviamente i fascisti; dopo la maturità avevo smesso di frequentare il collettivo della scuola e mi guardavo bene dal frequentare quello del mio quartiere. Però andavo alle manifestazioni per stare coi ragazzi della mia età: gli slogan, le canzoni, gli striscioni, i volantini, ma persino certi colori e certi odori, mi facevano star bene. Qualcosa del genere l’ho provato una decina di anni dopo, ai tempi del cosiddetto riflusso, diventando un tifoso della Roma. Chi sostiene che non abbia alcun senso impazzire per undici pallonari in mutande, ricchi e capricciosi, non ha mai provato la sensazione inebriante e consolatoria di sentirsi un tutt’uno con mille sconosciuti; antidoto potente contro la solitudine e l’anonimato a cui questa vita ci costringono: la mia gioia è la tua gioia, la mia amarezza è la tua amarezza, ci abbracciamo, anche se non ci conosciamo quando segna Falcao; ci guardiamo con gli occhi tristi e ci consoliamo a vicenda quando vince la Lazio. Io ti capisco e tu mi capisci, anche se età, censo, idee politiche ci dividono.
Quella mattina essere lì, tutti assieme, a cantare le nostre canzoni, mi dava un’allegria inesprimibile. Eravamo lì per cose importanti, ma eravamo lì anche e soprattutto (un po’ di ritegno e di indulgenza per il ragazzo che sono stato impongono alla mia penna di non scrivere “soltanto”) per sentirci bene. Era una festa, una scampagnata, una gita fuori porta.
Non ho mai saputo di preciso cosa sia successo, né nei giorni successivi, frastornato com’ero, ho voluto andare a fondo della questione. A  maggior ragione oggi a distanza di più di trent’anni non saprei dire chi all’improvviso ci abbia rovinato la festa. Gli autonomi? I fascisti? La polizia? Ricordo soltanto un urlo lancinante, prima singolo, poi collettivo, seguito da un fuggi fuggi verso le vie laterali; gente che spingeva, che correva a perdifiato, le ragazzine del Mamiani, bellissime nei loro maglioncini  colorati con le gonne lunghe a fiori, che piangevano come disperate.
Io fin da bambino ho sempre odiato la calca, gli affollamenti, la violenza. Appena mi resi conto di quello che stava succedendo cominciai a correre, via, a perdifiato, senza voltarmi indietro, cercando di evitare le strade e privilegiando i vicoli della vecchia Roma che conosco alla perfezione.




Una faccia pulita


Smisi di correre solo quando fui tanto lontano da non sentire più il frastuono della piazza. Mi ritrovai da solo in una via poco frequentata. Due negozi di alimentari, un calzolaio, un bar. Ero in un mare di sudore, per cui decisi di entrare a rilassarmi. Al barista decisamente non piacevo; mi squadrava da capo a piedi, cercando di capire se fossi un borseggiatore, un drogato… avevo il fiatone, non stavo più in piedi, nemmeno mi accorsi della ragazza che si alzò da un tavolino e mi si avvicinò.
“Scusa, hai una sigaretta? io le mie le ho finite”. Era un’adolescente bionda, esile, dai grandi occhi blu. Come molte ragazze di quel tempo non portava un filo di trucco. Vestiva in maniera semplice, una Lacoste  verde attillatissima ed una gonna bianca. La guardai divertito, poi estrassi il pacchetto delle Muratti. Ce n’era rimasta una sola, ma pazienza. Gliela porsi. “Scusa la faccia di tolla -mi disse con un improvviso senso di disagio accendendosi la sigaretta ed aspirando con voluttà- ma ne avevo una voglia pazza. A proposito, io mi chiamo Camilla. Perché non ti siedi un momento?”.
“Piacere, Claudio” sussurrai. Lo specchio del bar mi rimandò la mia immagine: avevo un’aria sconvolta. “Quando capitano questi incontri sarebbe meglio essere ben pettinati” pensai con un soldo di ironia e due di rammarico. Ordinai un panino e una coca e mi sedetti vicino a lei. Cominciammo a chiacchierare di tutto, era gentile, ironica, gradevolissima. Parlavamo a ruota libera: politica, cantautori, scuola, viaggi, animali domestici, vacanze estive… all’improvviso, di punto in bianco  mi chiese se avessi mai subito un intervento chirurgico ed io le parlai della mia appendicite.
“Hai avuto paura?” mi chiese.
“Così così” risposi, facendo la media matematica tra il ricordo della paura folle che avevo provato in ospedale e la tentazione di rispondere “io non mai ho paura di niente” accompagnando le parole con una smorfia da duro e dondolando una Muratti penzolante tra le labbra. Già, una Muratti… Peccato che non ne avessi… Pensare che lei ebbe persino la faccia tosta di chiedermi se le ricomperavo. All’improvviso balenò nitidissimo alla mia mente un fotogramma immagazzinato ma non analizzato qualche minuto prima: Camilla portava la minigonna!!! L’avevo intravista entrando al bar e me ne ero praticamente dimenticato (“Claudio stai invecchiando” mi dissi…). Per evitare di perdere altri punti con me stesso cercavo di guardarle le gambe sotto il tavolino e lei, che se ne era accorta, faceva di tutto per non farmele vedere, ma  non se la prendeva, tuttaltro: era un gioco, una schermaglia;  mi accorsi che la cosa la divertiva moltissimo. Ogni tanto invece Camilla guardava l’orologio e questo non mi faceva per niente piacere..
“Dài, Camilla, mica ti muore il gatto sei stiamo ancora un po’ qui”
“No, vedi, è che ho dei genitori che rompono… mia madre mi sta aspettando per pranzo, poi stamattina, col casino che c’è a Roma…”
Ci misi un po’ a capire a cosa alludesse. Com’era lontano il casino di Roma per me che stavo vivendo una mattinata stupenda. Quanto a lei… non ci giurerei, ma avevo la netta sensazione di piacerle.
Ad un tratto guardò di nuovo l’orologio, fece una smorfia e si alzò con decisione.
“Io vado, Claudio. Ti lascio il mio numero, se ti fa piacere chiamami. Tranquillo che mi trovi. Non esco mai.






venerdì 23 marzo 2012

Da Ti racconto una canzone EL MUSTRU (Il mostro)


EL MUSTRU  (Il mostro)

No, no, no, non ci siamo, mi ascolti, giovanotto: ho accettato di parlarle, ma non le permetto di guardarmi con quella faccia piena di finta compassione. Riesco ancora a capire, sa, quando una persona mi prende per il culo, anche perché ormai lo fanno in troppi. Lo so che sono lo zimbello di questo ospedale, ed anche quando ero fuori, negli ultimi tempi le cose non andavano diversamente. Quindi, per favore, cambi atteggiamento o io mi faccio portare in camera. E allora, mi dirà lei, perché mi sottopongo a questa intervista? perché ci tengo che qualcuno conosca la mia storia. Non pretendo che lei creda a quanto sto per dirle (a volte non ci credo neppure io, e sono i momenti in cui davvero do ragione a tutti i discorsi che si fanno sul mio conto), ma non le permetto di burlarsi di me. Quella bottiglia di barbera che mi ha portato… io la ringrazio del pensiero, ma la può anche mettere via subito. I medici mi hanno proibito il vino. Nel bicchiere ci tengo la dentiera; a volte la guardo e mi sembra che rida. E voglia Dio che almeno lei non rida di me… Lei mi vede qui ora, inchiodato su una sedia a rotelle, dipendente in tutto e per tutto da un’infermiera; ogni tanto qualcuno viene a trovarmi, mi porta un pacco di biscotti, mi spinge lungo i corridoi da cui entra un raggio di sole che mi sembra falso, pallido e malato, come tutto in questo ospedale. E poi ci sono quelli come lei. Io ci farei la firma a morire domani, ma prima di tirare le cuoia vorrei riuscire a parlare un’ultima volta col lago, coi sassi, coi pesci per chiedere se sanno chi sono io, o meglio chi sono stato io. Chiedere se si ricordano di me.

Lei mi vede qui bianco, pallido, avvizzito, raggrinzito, con indosso un pigiama da quattro soldi, ma io un tempo ero il re dei pescatori.
Nessuno conosceva il lago meglio di me, nessuno era più abile nella pesca. Conoscevo a memoria ogni angolo di questo enorme specchio d’acqua che ho sempre considerato la mia seconda casa. Contrabbandieri, pescatori, turisti… ne avrei avute di raccontare di storie sugli altri, ma non avrei mai pensato che un’avventura così allucinante sarebbe dovuta capitare proprio a me.

Quella maledetta notte di novembre ero da solo, (il Gianni e mio figlio erano a letto con l’influenza), solo, le dicevo, con la mia barca e tutto l’occorrente per pescare. All’improvviso, saranno state le dieci, le dieci e mezzo di sera, il cielo si è squarciato, le stelle si sono spente; mi è parso che la luna precipitasse verso di me,  ho sentito un’onda terribile venire dal fondo del lago e mi sono aggrappato alla barca con due mani per non cadere in acqua.
In quel momento l’ho visto.
Aveva la forma di un’anguilla, o meglio di una biscia d’acqua, ma era grosso come uno di quei battelli da turismo che ogni giorno solcano il lago da Como a Gravedona. Aveva la bocca spalancata e sembrava voler divorare le stelle. Un mostro orribile come quelli che da bambini vedevamo nei film dell’oratorio, un mostro uscito da un tempo che non ci appartiene... eppure era lì davanti a me.
Il Pino mi ha raccontato che la mattina mi hanno trovato riverso sulla barca. Avevo gli occhi da indemoniato, parlavo da solo, continuando a ripetere quello che ora sto dicendo a lei e mi contorcevo in preda alle convulsioni, come uno di quei cagnotti che uso come trappola per i pesci.
Ha detto il Pino, e lo ripete continuamente, che gli ha fatto impressione vedere il re dei pescatori conciato a quel modo. Mi hanno portato al Sant’Anna e, dopo avermi fatto una flebo, mi hanno fatto riposare un paio d’ore, poi mi hanno dimesso. “Sindrome allucinatoria da diabete” hanno scritto sulla carta. Un modo molto fine per non darmi del rimbambito. Il diabete ce l’ho da una vita, ma non mi ha mai dato allucinazioni o visioni di nessun tipo.
Da quel giorno la mia vita è cambiata. Camminavo per le strade e la gente mi guardava, poi, appena mi sorpassavano sentivo che ridevano di me. I miei affari sulle prime sono migliorati. Tutti venivano a comprare il pesce da me, per farmi raccontare la mia storia, per divertirsi alle mie spalle, per ascoltare i vaneggiamenti di un demente. Anche i miei figli non hanno mai creduto a questa storia. Dapprima hanno avvallato la storia del diabete, poi hanno cominciato a parlare di arteriosclerosi ed infine hanno deciso di ricoverarmi qui dentro.
Il mostro ha rovinato la mia vita, ormai sono un uomo finito, ma ho un ultimo desiderio ed i miei figli hanno deciso di accontentarmi.
Ogni tanto, verso sera uno di loro, o una badante, mi viene a prendere all’ospedale e mi porta qui sul pontile da dove la sera partivo per andare a pescare. Vanno a sedersi nel bar che ha la veranda proprio davanti al pontile, così possono tenermi d’occhio, anche se non ce n’è bisogno. Mi lasciano solo, con una fiocina in mano. Io rimango lì ed aspetto… aspetto. In quei momenti sono lucido nonostante mi imbottiscano di medicine. Fisso il lago in silenzio.  Viene buio, ma io non ho paura. Aspetto che il lago si apra e che una creatura orripilante esca fuori.
Voglio che queste facce di merda che mi sbeffeggiano di continuo possano finalmente capire la verità. Voglio che tutti abbiano chiaro una volta per tutte (io per primo) se il mostro di cui tutti parlano è uscito dagli abissi del lago di Como o dalla testa di un rimbambito.
Ma è così importante conoscere la verità?
In entrambi i casi… senza di me nessuno lo avrebbe saputo.


EL MUSTRU


Parlumm mea de barbera,
nel buceer gh’è la dencéra
che la riid senza di me
e sun ché cun l’infermiera
setaa giò sö na cadréga
che la viàggia de par lee

e anca el suu nel curiduur me paar piö lüü,
el vöör parlàmm
dumandi al laagh, da la finestra,
se'l se regorda chi è che sun
per questa geent che vee a truvamm cun scià i
biscott
sun piö nagott
dumanda ai pèss, dumanda ai sàss,
che luur la sànn quel che ho vedüü

Perchè adess g’ho sö el pigiama
ma regordes che una volta
seri el re di pescaduu,
ho vedüü sguaràss el laagh,
ho vedüü quatàss el cieel
e la loena burlà giò,
l’era faa cumè un’anguila,
l’era gross cume un batèll
e’l majava tücc i stell,
una bissa incatramata,
cun la buca sbaratada
e cui öcc dell’oltrummuund...
un mustru, ma l’era mea el film de l’uratori
un mustru, vegnüü’n de un teemp che l’era piö el sò
ho vedüü el mustru, ho vedüü el mustru...

E i m’hann truvaa luungh e tiraa
cunt i öcc de indemuniaa
e che parlavi de par me

“Vardii el re di pescaduu,
stravacaa in so la sua barca,
che’l se sbatt cumè un cagnott !”

m’hann dii che el mustru l’era el diabete
per mea dimm che seri màtt
quand che passavi me salüdaven,
quand se giràvi sentirvi riid
vegniven tücc a crumpà el pèss
per ghignà un zicc o per cumpatìmm
gnanca i fiöö m’hann mai credüü
e seri el re di rembambii

Adess g’ho sö el pigiama ma sun che sura un puntiil
a specià che’l solta fö,
sunn piee de medesèn,
me parlen tücc de arterio,
ma sun che per fala fö,
te speci setaa giò cun in man dumà una frosna
e sun propi mea stremii,
facch vede a’sti tòcc de merda se te seet deent
in del laagh
o nel coo de un rembambii...
un mustru, senza i me occ el ghe sariss mai staa.

Questa canzone è stata incisa da Davide Van de Sfroos


venerdì 16 marzo 2012

E MI RIPETI DOMANI

E

Io li ho conosciuti di persona Mimì e Saro, o come sta scritto nei verbali di polizia Giuffrida Domenica di anni 23 senza occupazione stabile e Grasso Rosario di anni 27 imbianchino, verniciatore e sedicente pittore, conviventi more uxorio al n. 67 di via Gramsci in Cormano, incensurati, e purtuttavia da lungo tempo noti alle forze dellordine come tossicomanio ancora, in ossequi alla privacy i giovani D.G  e R.Gdi cui hanno parlato i giornali di ieri. Ho letto la mezza paginetta in cronaca, ho visto il breve servizio sul TG3 regionale, ma soprattutto ho sentito le parole severe, dure, ingenerose della gente comune per strada e nei bar. Mi hanno fatto un male pazzesco ed è questo il motivo per cui stasera sento il bisogno di prendere la penna e parlare di loro. 
Sono passati sei mesi  da quel pomeriggio di domenica in cui le bancarelle della sagra paesana allimprovviso hanno dovuto sbaraccare, perché si è messo  a piovere di brutto. Io sono corso a cercare riparo sotto il portico di piazza Pertini; stavo cercando di raggiungere la gelateria Nadamas quando mi ha colpito una discussione pacata, accorata, ma nello stesso tempo intensa tra due giovani appoggiati alla saracinesca di un negozio che un tempo vendeva paccottiglia orientale ma che è chiuso da tempo immemorabile.
Ce la faremo, Mimì, ce la dobbiamo fare. Io sento che siamo ad una svolta, un poè colpa di sta minchia di pioggia che ci fa vedere tutto nero, a me non piace la pioggia, io sono per il sole. Domani sento che comincia il nostro decollo, la nostra risalita.
Che stai a dire Saro, basta con queste cretinate, non le posso più sentire.
Avevo chiesto permesso nel passare davanti a loro ed entrambi mi avevano sorriso.
Anche a me non piace molto la pioggia -avevo sussurrato- ma sono nato qui, diciamo che ci sono abituato.
Erano bastate poche parole ed eravamo diventati amici. Saro mi aveva invitato a prendere un caffè da loro. Sa mi aveva detto- è la prima volta che qui a Cormano una persona ci si rivolge come se fossimo persone normali. Non è una cosa di tutti i giorni. Erano sporchi, trasandati, i capelli lunghi e un pograssi, ma avevano unaria indifesa che mi aveva intenerito.
Quella sera mi avevano raccontato tutta la loro vita: la fuga da un sud arcaico, limpossibilità o quasi di trovare lavoro, lemarginazione, la povertà, la drogalei rassegnata, spenta, lui sempre con questa grinta, con la voglia di uscirne, mada domani. Avevamo preso il caffè, mi avevano offerto uno spinello che avevo rifiutatoMimì quasi per giustificarsi mi aveva detto sai, è per evitare di tornare a prendere quella merda da cui abbiamo deciso di stare lontani…”
E da domani non ne prendiamo più, e neanche di questi, puoi starne certaaveva aggiunto Saro stringendole un braccio scarno e devastato dalle punture.
Ricordo che ad un certo punto mi stavano mostrando la loro camera da letto, sulle cui pareti Saro aveva dipinto un paesaggio siciliano: sole, mare, cielo azzurrissimo, fichidindia, oleandri e zagarequando dalla strada si era levato un rumore improvviso: uno schiamazzo di bambini che giocavano, urlavano, litigavano, ma senza cattiveria come fanno i bambini.
Saro aveva cominciato a bestemmiare, a picchiare i pugni nel muro.
Ecco cosa ci manca, un figlio ci manca.  Mimì io voglio un figlio da te.
Lei mi aveva guardato un poa disagio, poi aveva cercato di prenderlo con le buone.
Ascoltami Saro, ragionaio non lavoro, tu sei precario, oggi ti chiamano a pitturare domani no, non riusciamo ad uscire da questa porca di droga, stiamo aspettando lesito degli esamimagari siamo pure sieropositivisiamo ancora qui dentro solo perché il comune ci paga laffitto, altrimenti saremmo già sotto un pontecome facciamo a fare un figlio in queste condizioni? ragiona, amore.
Lui si era messo a piangere.
Minchia, Mimì, anche tu come gli altri sei. Noi ce la dobbiamo fare, noi ne usciamo da questo tunnel e domani comincia una nuova vitasai una cosa, Mimì? sento che domani ci sarà il sole anche in questo paese di merda e che mi chiameranno ad imbiancare un palazzoe che tu troverai lavoro in una fabbrica. Poi appena avremo messo via un podi soldi andremo in un altro paese, dove i pusher non ci potranno trovare e da domani la nostra vita sarà quella che sognavamo al paese
Ricordo che Mimì si era avvicinata a me e mi aveva sussurrato nellorecchio: domanidomanipensare che la vita possa cambiare è come sperare che qui al nord ci sia il cielo azzurro.
Beh qualche volta cèstavo per dire, ma mi trattenni vedendo dalla finestra il cielo grigio, quasi nero e lacqua che scrosciava.
Sono grato al portinaio dello stabile di via Gramsci che prima di avvertire la polizia mi ha chiamato. In questa domenica di novembre grigia, umida, piovosa, con lacquerugiola che si insinua nel cappotto e sembra quasi entrarti nelle ossa sono salito nel loro appartamento.  Erano distesi sul letto. Lui aveva ancora in mano un pennello ed un tubetto di tempere, un altro tubetto era aperto e un podi colore si era versato sul cuscino, lei gli teneva la mano. Fuori pioveva, ma il paesaggio solare, mediterraneo sul muro sembrava vero.
Overdose? AIDS? Suicidio? Lo dirò lautopsia. In ogni caso si sono tolti da questa vita e certo in questo momento stanno meglio di come stavano prima. Li ho guardati e nella mente mi risuonavano le parole di Saro: da domani la nostra vita cambierà. Finalmente è arrivato il loro domani.
E MI RIPETI DOMANI
(Gerardina Trovato)


E mi ripeti domani, domani, domani vedrai ci alzeremo

E mi ripeti domani noi due partiremo vedrai dove andremo

E mi ripeti domani sarà tanto bello partire di giorno

Col sole caldo sulle tue mani ma piove


E mi ripeti domani, domani vedrai amore mio voleremo

Saremo solo due anime libere senza più un corpo e senza pensiero

E non avremo paura neppure se sotto di noi guarderemo

Voleremo su in cielo ma piove


Poi ogni volta che vedi giù in strada un bambino giocare

Ti metti a correre per tutta la casa e cominci ad urlare

Poi prendi qualche colore e provi sul muro a dipingere il sole

Cerchi di farlo brillare ma piove


E mi ripeti domani, domani vedrai amore mio smetteremo

Ed ogni giorno che passa mi dici domani ma è sempre domani

Ma questo sole dipinto sul muro con la luce

Di mille colori e senza calore e intanto fuori piove


Poi questo cielo di colpo diventa ancora più nero

Su questi corpi distesi sul letto immobili senza pensiero

Lei tiene ancora i colori vicino

E la mano di lui fredda sopra il cuscino

Finalmente è arrivato domani.
Questa canzone è stata incisa da Gerardina Trovato

venerdì 9 marzo 2012

Da Ti racconto una canzone IL BANDITO E IL CAMPIONE


IL BANDITO ED IL CAMPIONE

 Signora, beva un po’ d’acqua alla fontanella e poi si sieda un attimo qui sulla panchina, ostia, non se la prenda così, si calmi, non è successo niente. Mi scusi, sa, se sono scoppiato a ridere, prima, quando lei stava litigando con quell’ambulante che tra l’altro è amico mio… non ridevo di lei, mi creda… pensavo…  pensavo a come è buffa la vita… a come cambiano le cose… Lei gli ha comprato un secchio della spazzatura ed un imbuto, quel vecchio ha sbagliato a darle il resto e lei gli ha dato del ladro; lui ha detto che ladra era lei e lei, signora, lo ha minacciato prima di dargli due sberle, poi di chiamare i carabinieri… Due sberle… i carabinieri… il venditore ha chinato la testa sospirando, ha tirato fuori da un borsellino più vecchio e  più conciato di lui altre cinquecento lire e gliele ha date con le mani che gli tremavano, poi mi ha fatto un cenno di saluto e si è allontanato sacramentando tra i denti, con le spalle curve ed il passo incerto di chi ha ancora poco da vivere. Io ormai ci ho l’occhio clinico, purtroppo. Per me quello ha ancora in saccoccia al massimo un mese di vita, forse meno. Le è andata bene, signora. Cinquant’anni fa non avrebbe parlato così, mi creda, non a Novi Ligure almeno, dove tutti conoscevano… ma mi scusi, mi accorgo che non mi sono neanche presentato. Mi chiamo Nazareno Repetto, pensionato. Ho fatto il muratore per tutta la vita e adesso passo le mie giornate qui al parco, a prendere il fresco, a leggere il giornale, anche se comincio ad essere un po’ stufo dei giornali, ormai non si parla d’altro che del rapimento di Moro e dei mondiali in Argentina… Moro e Paolo Rossi… Paolo Rossi e Moro, sembra che in Italia non ci siano altre notizie… oddio mi scusi, sto perdendo il filo, sa alla mia età… Quanti anni mi dà signora? Settanta? Eh, magari, ce ne ho ottantadue, signora. Ottantadue come il nostro presidente della Camera, che ho sentito dire che se riusciamo a toglierci dalle palle il Leone lo vogliono fare presidente della repubblica e io l’ho conosciuto sa? Eravamo in esilio insieme in Francia. Cos’è che le stavo dicendo? Ah sì le dicevo che sono di Novi Ligure. Da bambini eravamo in tre amici, inseparabili, siamo cresciuti insieme, e niente e nessuno poteva dividerci:  uno ero io, l’altro, anche se lei è giovane lo avrà senz’altro sentito nominare, era il Costante Girardengo, sì proprio lui, il campione di ciclismo e il terzo era quel tipo a cui lei mezz’ora fa ha minacciato due sberle e ha detto che avrebbe chiamato i carabinieri: Sante Pollastri, detto “el Pulàster”.  Cosa ci univa? Beh intanto ci eravamo trovati adulti senza essere stati bambini, perché eravamo poverissimi tutti e tre, signora, pochi soldi… e in casa per mangiare dovevamo fare i numeri… e poi la bicicletta. Tutti e tre eravamo appassionati di bicicletta, non ce ne separavamo mai, sempre a correre su giù per le strade e per le campagne. Era un amore la bici, ma era anche un modo di sfogare tutta la rabbia della nostra povera vita, non avevamo niente, signora, mica come i giovani di oggi… Io ho un nipote che ha studiato e mi dice sempre che se non ci fosse stata la prima guerra mondiale… che nei primi anni del secolo il Giolitti ha fatto star bene tutti… che si stava vincendo la povertà… sarà, ma io non me ne sono accorto; noi a quei tempi non avevamo nemmeno il pane in casa nostra. Però avevamo la bicicletta. Fin da bambini io ero il più scarso; il Pulàster e ancora di più il Gira invece correvano come dei matti. Ma già verso i quindici sedici anni si era capito che il Girardengo sarebbe diventato un grande corridore, mentre il Sante se la cavava sì, ma non sarebbe mai stato un dio. E allora il Sante Pollastri, quello a cui lei stamattina ha dato del ladro, la bicicletta ha cominciato ad usarla per un altro scopo. E’ diventato un ladro. Di notte saltava sulla bici, entrava nelle case, portava via tutto e poi via, spingendo sui pedali, sparando ai fanali, di modo che chi lo inseguiva non vedeva più niente ed era obbligato a fermarsi. Ma era anche scarognato il Pulàster, gliene succedeva una ogni momento. Una sera stava uscendo da una villetta fuori Novi dopo averla ripulita per bene, quando sono passati di lì i carabinieri. Il Sante ha cercato di sparare sui fanali, ma un gendarme con un colpo secco ha fatto fuori il suo complice, il marito di sua sorella. Un dieci giorni dopo al fratello del Sante, che era un poveretto un po’… un po’ indietro di cottura insomma e ci aveva anche un brutto male, ci arriva la cartolina di andare a soldato. Quello figurati se si presenta al Distretto, allora i carabinieri sono andati a prenderlo e lo hanno portato in caserma. Cosa sia successo lì dentro non lo saprà mai nessuno, sta di fatto che il Pollastrino in quella caserma ci è entrato vivo e ne è uscito coi piedi in avanti. Da quel momento il Sante ha avuto solo due obiettivi nella sua vita: ammazzare i carabinieri e seguire il suo amico Girardengo quando correva dalle nostre parti. E le ha fatte bene tutte e due le cose: sa quanti ne ha ammazzati di carabinieri? Glielo dico io. Quindici ne ha ammazzati. E il maresciallo Fossati che comandava la stazione di Novi, la sera che se lo è trovato davanti con in mano una Beretta è diventato matto dalla paura e ha finito i suoi giorni in manicomio. Invece quando il Girardengo correva dalle nostre parti il Pulàster era sempre lì a gridare, a incoraggiarlo, era il primo ad urlare “Vai Girardengo, vai che sei solo!!!” e tutta la gente poi gli andava dietro. Dicevano che era un anarchico, un comunista, ma lui diceva sempre “io ho le mie idee, non quelle degli altri” e i gendarmi e i fascisti gli stavano addosso. Rompevano meno le palle a me che pure ero schedato come socialista e sovversivo. Tutto è cominciato da quella volta… mi ricordo come se fosse adesso… ah non le ho mica detto che il Sante Pollastri aveva sempre in bocca una caramella, gli piacevano tutte tranne quelle al rabarbaro che proprio non le sopportava. Una sera, quando ancora era un ladro di galline, sarà stato ai tempi della marcia su Roma o poco dopo, uscivamo io lui e il Gira da un’osteria e il Pulàster si era messo in bocca la solita caramella… quando ha sentito che era al rabarbaro l’ha sputata… orca, quando si dice la rogna,  è mica andato a sputarla sullo stivale di un ceffo della Milizia? Ecco credo che l’odio dei fascisti per il Sante sia cominciato da quell’episodio. Poi all’improvviso è sparito dalla circolazione, troppo pericoloso per lui stare a Novi Ligure: tutti che lo cercavano polizia, carabinieri, milizia, anche quelli dell’OVRA, e oltretutto in paese nascevano storie, racconti, leggende… Non le dico come è rimasta male la Rosetta, la donna con cui stava il Sante che da un giorno all’altro se l’è visto sparire. E lei sa signora, come sono le donne in questi casi, oh esclusi i presenti come si suol dire, la Rosetta è diventata una bestia. A quei tempi era anche lei socialista, poi però dopo qualche anno l’abbiamo allontanata dal partito, non ci fidavamo più di lei… ed ora che ci penso…  ma non è possibile… eh la madonna… una cosa che non ho mai capito in quarantanove anni… all’improvviso stamattina parlando con lei, mi sembra chiara come il sole… Cos’è che stavo dicendo? Ah sì… noi socialisti non avevamo un punto di riferimento all’estero come poteva essere la Russia per i comunisti, noi siamo andati in Francia, ma la rete di supporto abbiamo dovuto costruircela da soli poco alla volta. Nel ’29 per esempio il partito ha mandato me e la Rosetta a Parigi. Dovevamo far finta di essere due morosi e cercare casa… Una mattina stavamo camminando per andare a vedere un bilocale che ci avevano segnalato, quando ho visto un manifesto sul muro: al Vélo d’Hiver c’era una Sei Giorni con tutti i migliori corridori del mondo… e c’era anche il Girardengo. Non le dico, signora, la mia emozione. Io era da un paio d’anni che non lo vedevo il mio amico Costante, avevo una voglia matta di abbracciarlo… ho guardato la Rosetta e le ho detto subito “io stasera vado a vedere la corsa, poi entro in pista e vado a parlare col Gira”,  ma lei mi ha detto che ero scemo, che era pericolosissimo, che eravamo in incognito e devo dire che mi ha convinto. Aveva ragione. Ma decisamente era la giornata dei ricordi e delle sorprese. Infatti dieci minuti dopo siamo entrati in un caffè a mangiarci una baguette e ci siamo trovati di fronte il Sante Pollastri in persona. Lui quando ci ha visti, ma soprattutto quando ha visto la Rosetta, ha fatto una smorfia, poi senza dire una parola è uscito dal bar ed è entrato nel metrò. Io ho guardato la Rosetta, lei è impallidita, ha stretto le labbra e mi ha detto “ma non è mica lui… è uno che gli somiglia” e non ha più parlato fino a sera. Il giorno dopo tutti i giornali riportavano la clamorosa notizia: durante la Sei Giorni di Parigi una brillante operazione congiunta della polizia italiana e francese aveva portato all’arresto del pluriomicida italiano Sante Pollastri. Certo non ci voleva un genio per capire che se volevano  beccare el Pulàster bastava seguire le corse e le vittorie di Girardengo, ma per molto tempo si è detto che qualcuno sapeva ed ha cantato. Il Sante ha preso l’ergastolo, poi non ne ho più saputo niente. Ai tempi del fascio ufficialmente in Italia non c’erano delitti. Ogni tanto in tutti questi anni mi è tornato in mente, ma credevo che fosse morto in galera. Finché il nove febbraio di quest’anno, ero lì sulla piazza di Cassano Spinola sotto una nevicata che te la raccomando, mi sono sentito toccare un braccio… era lui… il Pulàster, con gli occhi rossi per il troppo piangere. Ci siamo abbracciati senza dire una parola, perché dalla chiesa usciva lentamente la bara con dentro il corpo del nostro amico Girardengo. “Vai Girardengo, vai campione che sei solo!” ha sussurrato Sante; poi ha ricominciato a piangere in silenzio.

 

Il bandito ed il campione

(Francesco De Gregori)


Due ragazzi e il borgo
cresciuti troppo in fretta
un'unica passione
per la bicicletta
un incrocio di destini
in una strana storia
di cui nei giorni nostri
s'è persa la memoria
una storia d'altri tempi
di prima del motore
quando si correva
per rabbia o per amore
ma fra rabbia ed amore
il distacco già cresce
e chi sarà il campione
già si capisce
vai Girardengo vai grande campione
nessuno ti segue su quello stradone
vai Girardengo non si vede più Sante
e dietro a quella curva
è sempre più distante
e dietro la curva
del tempo che vola
c'è Sante in bicicletta
e in mano ha una pistola
se di notte è inseguito
spara e centra ogni fanale
Sante il bandito
ha una mira eccezionale
e lo sanno le banche
e lo sa la questura
Sante il bandito
mette proprio paura
e non servono le taglie
e non basta il coraggio
Sante il bandito
ha troppo vantaggio
fu antica miseria
o un torto subito
a fare del ragazzo un feroce bandito
ma al proprio destino
nessuno gli sfugge
cercavi giustizia
ma trovasti la legge
ma un bravo poliziotto
che sa fare il suo mestiere
sa che ogni uomo ha un vizio
che lo farà cadere
e ti fece cadere
la tua grande passione
di aspettare l'arrivo
dell'amico campione
quel traguardo volante
è finito in manette
brillavano al sole come due biciclette
Sante Pollastri
il tuo giro è finito
e già si racconta
che qualcuno ha tradito
vai Girardengo vai grande campione
nessuno ti segue su quello stradone
vai Girardengo non si vede più Sante
è sempre più lontano
è sempre più distante
è sempre più lontano
è sempre più distante
vai Girardengo non si vede più Sante
sempre più lontano
sempre più distante


Questa canzone è stata incisa da Francesco De Gregori, da suo fratello Luigi Grechi che molto probabilmente è il vero autore e da Gian Pieretti.

 


 

 

venerdì 2 marzo 2012

Da Ti racconto una canzone ERA SUI QUARANT'ANNI


ERA SUI QUARANTANNI
 
 
Ho conosciuto Gualtiero Ramirez da bambino, posso dire di essere sempre stato il suo migliore, forse il suo unico amico. Per dire la prima cosa che mi viene in mente, abbiamo fatto le scuole insieme, poi per tanti anni nelle lunghe, calde estati della nostra giovinezza abbiamo lavorato come butteri alla fattoria dei Mendoza, l’ho aiutato io a mettere su quel piccolo negozio di frutta e verdura che aveva in piazza Grande, ed infine io gli ho chiesto di fare da testimone alle mie nozze con Josefa. Che tipo, ragazzi… in tutta la mia vita non ho mai conosciuto una persona così abulica,  indecisa, insicura, priva di idee proprie. Ha trascorso l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza e l’età adulta quasi senza accorgersene. Si poneva domande su tutto, ma non sapeva mai darsi una risposta. Dovesse comprare un cavallo, o fare un viaggio all’interno a trovare i suoi cugini, gli unici parenti che aveva, dovesse fare un esposto allo sceriffo o farsi togliere una ciste lui voleva sempre sentire il parere di qualcun altro, il mio, quello di Josefa, quello del vicino di casa, quello dell’oste da cui andavamo la sera dopo cena a prendere un bicchierino di aguardiente. Qualche volta Josefa ed io lo invitavamo a casa nostra e ci faceva tenerezza, ma anche un po’ rabbia vederlo sempre così indeciso… vino o birra? Carne scottata o ben cotta? Frutta o dolce? Ci pensava come se si trattasse di problemi serissimi, si grattava la testa, si carezzava la barba con le mani, ci fissava aggrottando le ciglia, poi guardava me o Josefa e chiedeva: “tu cosa prendi?”. E quando d’estate noi si partiva per l’altopiano… abbiamo provato a portarlo con noi, ma era una tragedia… rallentava il passo, restava indietro a pensare se avesse chiuso la porta di casa, se avesse messo in valigia il poncho, se… se… se… e finiva per perdere il treno.
Non vorrei dare l’idea che fosse un cretino, tuttaltro, era una persona molto intelligente, si rendeva conto di quanto fosse dannosa per lui questa indecisione, se ne rendeva conto, ci soffriva, ma non riusciva a cambiare. 
Vengo ora al punto più delicato del mio racconto, ma dato il mio ruolo pubblico… qui lo dico e qui lo nego, quello che sto per raccontare non voglio che si sappia in giro, anche se è la verità, ma non quella ufficiale dei libri di storia. Sto parlando del rapporto di Gualtiero Ramirez con la politica. A quei tempi il nostro paese era schiacciato dalla feroce dittatura del generale Suarez. Tutti noi che frequentavamo piazza Grande e il caffè della Stazione e il mercato fuori porta eravamo contrari alla dittatura, la criticavamo sottovoce nei caldi pomeriggi estivi sotto i portici della piazza o d’inverno quando ci si trovava a casa di Pedro a mangiare i fagioli con le cotiche. “Insurrezione armata! Rivoluzione!” erano le parole che ci piaceva ripetere tutte le volte che parlavamo della situazione politica ed economica, delle nostre libertà schiacciate e calpestate, del cipiglio orrendo dei militari, del nostro futuro. Gualtiero ci guardava, sorseggiava piano il suo bicchierino di aguardiente poi fissava il tavolo. Se qualcuno di noi gli chiedeva il suo parere restava un attimo pensieroso, poi cominciava a parlare con la sua voce un po’ tremante. “Beh anche a me la dittatura di Suarez non piace, è ovvio, ma il generale ha fatto anche delle cose positive, ha risanato il commercio, ha pacificato le regioni del sud, certo ci ha tolto la libertà, ma eravamo liberi prima del colpo di stato, quando le bande dei predoni calavano dalle montagne e ci impedivano di vivere? E poi la rivoluzione con che armi la facciamo? E che governo vogliamo instaurare? E siamo sicuri che non intervenga qualche paese confinante ad attaccarci e portarci via le regioni minerarie o lo sbocco al mare?  Io un po’ di economia me ne intendo… su molte, moltissime cose aveva ragione Marx, e però un’economia liberista garantisce sviluppo, lavoro, arricchisce i ricchi, ma in definitiva anche i poveri, che però restano sfruttati e quindi…”
“E quindi non sarai con noi il giorno della rivoluzione?” gli chiedevamo un po’ sul serio e un po’ per burla.
“Non lo so, devo pensarci” era la sua risposta.


Ricordo come fosse oggi quella mattina del 29 ottobre. Dovevamo essere le sette e mezza, le otto al massimo. Eravamo seduti al caffè io, Juan Sebastian, Paco Poblet e Gualtiero Ramirez che ci pagava da bere perché proprio quel giorno compiva quarant’anni. Eravamo lì a bere prima di cominciare una normale giornata di lavoro, quando dalla Calle Major spuntò all’improvviso un drappello di uomini armati di mitra che gridavano “Morte al tiranno! Rivoluzione! Fratelli e compagni insorgete con noi!” Le guardie repubblicane nella loro funerea divisa bruna tagliarono loro la strada e cominciarono gli scontri.
Juan Sebastian si alzò in piedi di scatto. “E no, cazzo! Siamo in tempo di vendemmia, ma sono pazzi questi qui a fare tutto questo casino proprio a fine ottobre? Io ho i miei vigneti da curare”. Paco Poblet era bianco come un cencio. “Proprio adesso che mi sono trovato una donna… io ci andrei anche coi rivoltosi, hanno ragione, è una vita che aspetto questo momento, ma…ma… ma…  Rosa Benavides mi aspetta stasera dietro i granai della fattoria dei Mendoza… una donna come Rosa io non l’ho mai vista neanche al cinema… neanche in sogno, capite?…”
Io non riuscivo a parlare. Vedevo i primi morti sulla piazza, il sangue che usciva dalle ferite, le urla degli agonizzanti… uscii dal caffè, vomitai in un angolo e corsi a rifugiarmi in casa. L’ultimo mio ricordo è Gualtiero Ramirez che cerca di trattenerci, ci guarda disorientato, ci chiede “ma chi sono quelli? Cosa vogliono? Perché sparano? Forse oggi abbiamo la possibilità di mettere in pratica le cose di cui parliamo sempre… io vado a vedere, voglio chiedere, voglio capire…” Si alzò, uscì dal bar e si diresse verso il centro della piazza. Una pallottola, non saprei dire se sparata dalle guardie o dagli insorti lo colpì in pieno petto.



Scrivo queste note seduto ad un tavolino del “Caffè Gualtiero Ramirez” in piazza Gualtiero Ramirez. Dalla vetrata del caffè posso leggere la lapide di marmo in cui a lettere d’oro noi rivoluzionari abbiamo fatto incidere parole di gratitudine.


A GUALTIERO RAMIREZ
PRIMO MARTIRE DELLA RIVOLUZIONE
ANIMATO FIN DALL’INFANZIA DA ARDENTE SPIRITO
PATRIOTTICO E RIVOLUZIONARIO
UOMO D’AZIONE RAPIDO A DECIDERE
MAI SFIORATO DAL DUBBIO
SALDO NELLE SUE CERTEZZE
VISTO SORGERE IL MOMENTO RIVOLUZIONARIO
DA LUI TANTO ATTESO
IMMEDIATO RISPOSE ALLA CHIAMATA DEL DOVERE
FINO ALL’ESTREMO SACRIFICIO.
I COMPAGNI DI LOTTA
CHE DA LUI TRASSERO PER UNA VITA
STIMOLO ED ESEMPIO
CON GRATO ANIMO POSERO
NEL LUOGO CHE LO VIDE CONSAPEVOLE IMMOLARSI
PER UN DOMANI MIGLIORE



Era sui quarant’anni

(Paolo Pietrangeli)

Era sui quarant'anni
e non se n'era accorto
tutta la vita lui stata a pensar
cosa dovesse far
"Vale la pena
vale la pena
vale la pena o no
ora lo chiedo a qualcheduno
e poi deciderò".

Si camminava in tre
restava sempre indietro
meglio la pasta od il bignè
perdeva sempre il treno.
No che non era fesso
le cose le capiva
e se ne dispiaceva
e se ne dispiaceva
ma non serviva più.

Era sui quarant'anni
e si trovò lì in mezzo
oh che gran colpi, che confusione
era la rivoluzione.
"Vale la pena
vale la pena"
gli altri dicevan no
"vale la pena
vale la pena"
e intanto lui ci andò.

Era sui quarant'anni
e non se n'era accorto
non ebbe il tempo di fiatar
che si ritrovò morto.
E tutti i suoi compagni
ch'eran sempre sicuri
ora gli fanno omaggi
e lapidi sui muri.

Gran rivoluzionario
tempra di combattente
il suo dovere ebbe
sempre presente e in mente
e si sacrificò.
"Vale la pena
vale la pena
vale la pena o no
vale la pena
vale la pena"
e intanto lui ci andò.


Questa canzone è stata incisa da Paolo Pietrangeli