giovedì 29 settembre 2011

TI RACCONTO UNA CANZONE

IN PRINCIPIO ERA L’IDEA…
Questa raccolta di racconti in origine non era stata pensata per la divulgazione, ma avrebbe dovuto rimanere un mio sfizio personale di quelli a cui non permetto di uscire dal mio cassetto (che poi in realtà è un file). Un giorno leggendo su una rivista che molti cantautori (da Dylan a Ligabue, da Guccini a Vecchioni…) si sono cimentati anche con la narrativa, mi è venuta spontanea questa riflessione: se tutti i cantautori anziché appunto essere tali si fossero dedicati solo alla narrativa oggi non avremmo alcune delle canzoni che più amiamo… ma probabilmente avremmo al loro posto dei bellissimi racconti. Allora ho provato ad immaginare come avrebbero potuto presentarsi sotto forma di racconto le mie canzoni preferite… ho cominciato per gioco, poi il gioco mi ha preso la mano ed è nata questa raccolta. Il lettore non ci troverà nessun esponente della canzone d’autore anglosassone, data la mia conoscenza minima dell’inglese e, proprio perché sono partito da un lavoro sui testi, ho privilegiato gli autori italiani e ci ho messo solo un paio di canzoni straniere (più che altro un omaggio alle due uniche lingue che parlo oltre l’italiano e ai due paesi che, per motivi diversi, mi porto nel cuore. Degli italiani mancano Baglioni (al cui “Piccolo grande amore” ho dedicato un intero romanzo breve che racconta tutte le canzoni dell’omonimo disco più un paio da “E tu”), Vasco Rossi (non lo conosco molto, ma credo che le sue canzoni contengano riflessioni e sensazioni, non storie nel vero senso della parola), Lolli e Ligabue (ogni volta che mi accingo a trasformare in racconto “Morire di leva” o “Quando mi vieni a prendere” mi assale l’angoscia e non riesco a scrivere nulla) e Gaber le cui canzoni sono già racconti in musica. Gli altri, quelli che amo almeno, ci sono tutti, qualcuno, privilegiato!!! anche con due pezzi

PREFAZIONE

C’è un motivo se io preferisco le canzoni di qualche anno fa a quelle di oggi e le canzoni dei cantautori a quelle dei cantanti, oltre, beninteso ad ovvie ragioni anagrafiche: a me piacciono le canzoni che raccontano una storia, non quelle che usano le parole come puro pretesto fonico di supporto alla musica. E sulle storie che le canzoni raccontano mi piace fantasticare, mi viene voglia di saperne di più, di approfondire: quante volte mi sono chiesto quale sia la città da cui lei parte in treno alle 7.40 per lasciare un lui che però la raggiunge con l’aereo delle 8.50… oppure, per rimanere a Battisti, chi sia la persona che mette in allarme il marito, rivelandole che Francesca non è a casa, ma gira per la città vestita di rosso ed abbracciata ad un altro: la madre di lui? un vicino di casa? un’amica magari non del tutto disinteressata? Non lo saprò mai. Certo non sempre questo approfondimento è positivo: da un’intervista televisiva a Fabrizio De André ho appreso che Marinella, la protagonista di quella che è forse la più bella canzone italiana di tutti i tempi non “viveva senza l’ombra di un dolore”, non “scivolò nel fiume a primavera”, non ebbe a che fare con un “re senza corona e senza scorta”: era invece una prostituta scaraventata nella Bormida o nel Tanaro (Fabrizio non ricordava il nome del fiume) da un occasionale cliente con cui era venuta a diverbio.
Ecco allora il senso del mio lavoro: immaginare una storia dietro una canzone, per il puro piacere di raccontare, senza intenti didascalici o ideologici, senza messaggi: un pretesto per entrare dentro canzoni che amo, restare un po’ di tempo in loro compagnia ed impadronirmene.
Con la speranza, nemmeno tanto segreta e nascosta, di spingere anche il lettore ad ascoltare queste canzoni che nel corso degli anni mi hanno regalato tante emozioni.
Qualcuno si chiederà perché tra tante canzoni di autentici poeti e giganti della canzone d’autore ho messo anche una mia canzone… beh l’ho fatto un po’ per scherzo e un po’ per megalomania, dopo tutto, parafrasando lo slogan sessantottesco delle femministe “il libro è mio e lo gestisco io”…
Nota: Il racconto “FIUME SAND CREEK”, fermo restando che il personaggio del narratore è di fantasia, è basato su avvenimenti storici autentici rigorosamente documentati, come autentici sono tutti i nomi; i racconti “IL TEMPO SE NE VA”, “LA GITA” e –limitatamente al personaggio di Maria- “ANCHE PER TE” sono liberamente ispirati a fatti e persone reali; in tutti gli altri racconti nomi, avvenimenti e persone sono di fantasia e senza riferimenti alla realtà, men che meno alla vita privata degli autori delle canzoni

venerdì 23 settembre 2011

TOM FLAHERTY


Ci sono racconti, romanzi, canzoni, poesie che ti prendono perché sono scritti bene, o perché l’autore ha saputo esprimere magistralmente quello che aveva dentro, ma pochissime volte accade nella vita (e quando accade è un’esperienza straordinaria, ubriacante, una delle emozioni più intense che si possano provare al mondo) di trovare un testo che alla prima lettura o al primo ascolto ti lascia senza respiro, ti fa mancare l’aria, ti intontisce come un fuoco d’artificio. Ciò accade quando il poeta parla di una sensazione che anche tu hai provato, ma, e qui sta il bello, la descrive esattamente come tu l’hai provata… Tu leggi un testo e te ne senti l’autore.
A me è capitato ai tempi dell’università, nel 1969 o giù di lì, la prima volta che ho ascoltato la canzone dei New Trolls “Tom Flaherty”.
Fino a quel giorno non avevo mai aperto a nessuno, neanche agli amici più intimi, una pagina della mia vita che ritenevo solo mia, personale ed originale al punto che nessuno avrebbe mai potuto capirla e che pertanto se gliene avessi parlato l’avrebbe giudicata in maniera superficiale o errata. Tom Flaherty (poesia di un poeta a me sconosciuto: Riccardo Mannerini, tradotta da Fabrizio De André e musicata dai New Trolls) mi fece intuire una verità esaltante: qualcuno, in un altro tempo ed in un altro luogo aveva vissuto una sensazione identica alla mia e, a differenza di me, aveva avuto il coraggio di parlarne.
E allora ve ne parlo anch’io stasera (sono in casa da solo, fuori l’inverno morde come un lupo siberiano, ho appena finito di ascoltare in televisione un bellissimo concerto di Roberto Vecchioni), perché all’improvviso, senza un motivo preciso (o meglio il motivo è da ricercare nelle canzoni che ho appena finito di ascoltare) mi è volata la mente alla prima volta in vita mia in cui mi sono accorto di essere innamorato.
Dapprima, chissà perché, non volevo ammetterlo. Chiedevo a me stesso “che ci troverai mai di così speciale in quella lì?, una delle venti compagne di classe, né meglio né peggio delle altre”; ma non facevo in tempo a chiedermelo che già trovavo mille risposte: bellezza, ironia, energia, simpatia… Mi imponevo allora di pensare che la tale era più carina, la talaltra più spiritosa… ma mi accorgevo che dal confronto con “lei” tutte uscivano sconfitte, ma che dico sconfitte: polverizzate.
Cominciavo a pensare a lei la mattina appena sveglio, buttavo giù il caffè e non vedevo l’ora di essere in classe; percorrevo corso Sempione cercando con lo sguardo la Wolksvagen verde con cui il padre la accompagnava a scuola; rallentavo il passo e mi voltavo, sperando che per una volta avesse deciso di venire a scuola col 33 anziché in macchina… se un giorno era assente le ore mi sembravano lunghissime ed anche i miei poeti preferiti diventavano lagne inascoltabili.
Rileggo le ultime sei righe che ho scritto e mi accorgo di non aver detto niente di originale. Miliardi e miliardi di “primi amori” sono nati così, dai tempi dell’homo abilis ad oggi…
A questo punto chi mi sta leggendo si chiederà cosa abbia fatto io… anzi non aspetto che tu me lo chieda, te lo dico subito: NIENTE.
Come il Tom Flaherty della canzone mi posi da subito un imperativo categorico: nessuno avrebbe mai dovuto sapere di questo mio sentimento, men che meno lei. Perché? Beh ci sono molti motivi occasionali, ma uno solo autentico e profondo. Perché ero imbranato… perché eravamo diversissimi in tutto… perché non mi pareva che lei corrispondesse il mio sentimento… diciamo che tutte queste cose hanno avuto il loro peso, ma il motivo, torno a dirlo, era un altro.
In quel particolare momento della mia vita avevo bisogno di una storia mia e solo mia, da vivere, gustare, centellinare da solo, in casa… a scuola… in treno… la mattina mentre mi facevo la barba… il pomeriggio mentre ascoltavo i cantautori… la sera prima di addormentarmi… ogni volta che qualcosa non mi andava bene, nei momenti di insoddisfazione che erano molto più numerosi di quanto uno possa immaginare, perché quando si ricorda l’adolescenza la si ricorda vestita del “profumo del ricordo che cambia in meglio”ma, a pensarci razionalmente la mia non è stata una stagione di farfalle e di fiori: non mi piaceva il mio corpo che si allungava e si riempiva di peli e di brufoli, non mi piaceva aver perso l’unico amico della mia infanzia, trasferitosi all’estero senza lasciarmi uno straccio di indirizzo, non mi piaceva la full immersion liceale in un mondo di figli di industriali, medici, avvocati che ironizzavano sulla tuta blu, sull’italiano incerto e sulla Seicento di mio padre, non mi piaceva Cormano, non mi piaceva la grammatica greca, non mi piaceva la biologia fatta in maniera nozionistica e pallosa, non mi piaceva dover cambiare casa per la quarta volta in sei anni, non mi piaceva accorgermi giorno dopo giorno del lento ma inesorabile declino psicofisico dei miei genitori.
Ecco perché ritenevo tanto importante che nessuno venisse a conoscenza di questo mio “amore”: sarebbe bastato una battuta di un amico o un no di lei (che per mille motivi davo per scontato) e la magia si sarebbe dissolta in un secondo, come succede nelle favole. Ne parlavo moltissimo (nelle cose che scrivevo e soprattutto nelle cose che pensavo) ma sempre e soltanto con me stesso. Alle volte mi irrigidivo ascoltando i discorsi dei compagni di classe, perché mi assaliva il timore che qualcuno si fosse accorto di qualcosa, ma con un sospiro di sollievo finivo sempre per convincermi che si era trattato di un “falso allarme”; allo stesso modo mi scervellavo per cercare di capire cosa passasse per la testa di una dolcissima compagna, che era la mia e la sua migliore amica, quando ci invitava a passare il pomeriggio da lei (pomeriggi fantastici che assaporavo con una voluttà che poche volte ho provato in seguito nella mia vita), ma anche lì non ho mai avuto elementi per dedurre che avesse subodorato qualcosa (come mi confermò lei stessa con divertito stupore quando glielo chiesi molti anni dopo). L’unica che se ne accorse fu la nostra insegnante di lettere… non per niente era una poetessa.
Una delle domande che mi ponevo più di frequente in quel periodo era cosa ci fosse nel cuore “della mia ragazza”, padiglione “innamoramento & amore” ed allora la sottoponevo ad un attento monitoraggio. Sulle prime mi parve che, un po’ come la protagonista femminile dell’Aminta del Tasso –nomen est omen!- , fosse ancora calata nell’età dei giochi: mi piaceva da impazzire osservarla quando tornava in classe da ginnastica, rossa, sudata, scarmigliata e solo Dio sa quanto mi irritavano le battute poco cavalleresche dei compagni; poi mi era parso di capire che fosse innamorata di un vicino di casa, bellissimo ed irraggiungibile; infine mi ero convinto che le piacesse un nostro compagno di classe, che difatti di punto in bianco aveva preso a farmi una guerra che non mi spiegavo allora e di cui ancor oggi non so darmi ragione.
Ma tu amico lettore mi stai guardando con aria dubbiosa. Ti leggo in faccia che sei convinto che non ti abbia detto tutto. Ebbene hai ragione. Ma stasera mi sono incamminato sulla strada dei ricordi ed ho deciso di percorrerla fino in fondo. E allora te lo dico. Tieniti forte che adesso si vola.
Una volta le ho chiesto di uscire.
Mio padre, tramite il dopolavoro della ditta in cui lavorava mi aveva procurato all’ultimo momento due biglietti per uno spettacolo teatrale: “Giulietta e Romeo” (non facciamo dell’ironia per favore…). Al di là del testo shakespeariano, era di tutto rispetto anche la compagnia teatrale (che tutti noi conoscevamo ed apprezzavamo, perché aveva appena recitato in televisione il “Davide Copperfield”). Glielo proposi, tutto d’un fiato, ma simulando freddezza e nonchalanche in un giorno di pioggia torrenziale. La risposta fu “devo sentire i miei genitori”. Ero appena tornato a casa quando mi chiamò per dirmi che sua madre non le permetteva di uscire con quel tempaccio. Confesso che non credetti neppure per un attimo a questa versione; lo considerai un due di picche avvolto in carta argentata, ma il mio sentimento non mutò, ed il mio proponimento neppure.
Trentotto anni dopo in una di quelle interminabili notti d’ospedale tra medici, infermieri, morfina, flebo, saturimetri, ossigeno ed altre diavolerie ebbi una lunghissima conversazione telefonica con lei. Parlammo di tutto e di tutti: persone, ricordi, avvenimenti, situazioni. Non le chiesi se all’epoca si fosse accorta dei miei sentimenti, perché avevo già avuto occasione di chiederglielo e la risposta era stata “cado dalle nuvole”. Le chiesi invece se a quel tempo fosse innamorata del nostro compagno di classe e la risposta fu un NO chiaro, immediato, inequivocabile, pronunciato d’istinto senza nemmeno starci a pensare sopra. Le chiesi allora di quella volta del teatro e mi confessò candidamente che non si ricordava l’episodio… poteva essere stata una scusa, ma poteva benissimo essere stato un veto della madre. “Ma in questo caso –aggiunse ridendo- gliel’avrò fatta sicuramente pagare, barricandomi in camera mia dopo una scenata”.



venerdì 16 settembre 2011

CIAO, BULLONA

Sono le 22 del 17 maggio 2003. Tra due ore, dopo centotrenta anni di onorato servizio, andrà in pensione la stazione “Milano Nord Bullona Fiera Campionaria”, sostituita dalla nuovissima stazione “Milano Nord Domodossola Fiera Campionaria. Stazione era una, stazione è l’altra… per di più la nuova stazione è situata solo seicento metri più in là rispetto all’altra… ma la Bullona era tutta un’altra cosa.
Non ho mai visto una stazione come la Bullona: costruita a cavallo dei binari, a forma di ponte o (mi perdoni Marinetti) a guisa di un enorme ginnasta impegnato in una gigantesca flessione; Milano Nord Domodossola invece somiglia a mille stazioni del treno o del metrò: piloni, scambi, piastrelle giallognole che danno un’idea di razionale funzionalità, ma che creano nel contempo uno sgradevole “effetto bagno”.
Può sembrare stupido, ma questo cambio mi rattrista. La Bullona rappresenta per me quarant’anni della mia vita ed è stata testimone fedele della mia esistenza in almeno tre momenti indimenticabili.

Il liceo

Sono passati esattamente quarant’anni da quel 1 ottobre 1963 (era un martedì) quando accompagnato dalla mamma salii per la prima volta la lunga scalinata del binario 1 (direzione Milano Cadorna) per cominciare teso, ansioso, emozionato ed eccitato l’avventura della scuola superiore: destinazione Liceo classico Beccaria. Tre ore dopo scendevo con la testa un po’ confusa e piena di nomi strani, mai sentiti prima di allora (Garbin, Maraniello, Lassini…) o di nomi che fino ad allora avevano avuto per me tuttaltro significato (Fiorista, Meazza, Martino, Guzzi…) la scalinata del binario 2 (direzione Saronno-Meda-Asso) mostrando con ingenuo orgoglio alla mamma la lista dei libri da acquistare tra cui uno con un nome strano, esotico, misterioso, scritto con un alfabeto inaccessibile ai comuni mortali: LEIMWN.
Da quel giorno per cinque anni la Bullona divenne parte della mia vita, vi sbarcavo ogni mattina alle 7.45, vi tornavo alle 13.10 giusto in tempo per prendere il treno per Meda delle 13.24. Allora non c’era la pensilina: se faceva bello ci si sedeva sulle panchine in legno sotto gli alberi bassi, se pioveva si restava in piedi con l’ombrello aperto. C’era in verità sulla sinistra una piccola sala d’aspetto ma nessuno ci entrava: buia, sporca, tetra, sapeva di chiuso, di tanfo, forse anche di piscia… mille volte meglio restare all’aperto. Qualche volta ci capitavo anche il sabato pomeriggio o la domenica quando andavo a qualche festa o al cinema “Poliziano” una sala a poco prezzo, alla portata delle mie tasche, ma con una programmazione sempre di buon livello. Su quelle panchine in legno verde mille e mille volte ho riguardato, ora con gioia, ora con amarezza, i compiti in classe appena riconsegnati, ho sfogliato il diario per programmare il lavoro pomeridiano, ho letto il Corriere, ho ripensato agli episodi buffi o tristi della mattinata, ho sognato ad occhi aperti un amore tutto “di testa” che mi dava un’emozione strana indefinibile, impossibile da spiegare, ci vorrebbe un poeta ed infatti non ne ho mai parlato a nessuno finché non l’ho ritrovata anni dopo nella splendida canzone dei New Trolls “Tom Flaherty”. La stazione vera e propria era sopra le scale: una biglietteria anonima, un’edicola a forma di arco a 90 gradi (lì ho acquistato la maggior parte dei testi di narrativa e di poesia su cui mi sono formato, tutti rigorosamente “Oscar Mondadori”), moltissime riviste di musica leggera (Tuttomusica, Ciao amici, un’altra testata che amavo alla follia ma di cui non riesco a ricordare il nome) e quelle poche riviste pornografiche (due o tre in tutto) che ho sfogliato più che altro per curiosità in tutta la mia vita. In fianco all’edicola c’erano i bagni, su cui preferirei sorvolare, ed un piccolo bar gestito da due gemelli veronesi.
Il martedì (mi ero fatto esonerare da ginnastica complice un giovane medico che sarebbe diventato tristemente famoso alla fine degli anni Novanta, pagando con la vita la sua “disinvoltura professionale”) uscivo da scuola alle 10.55 e mi piaceva, anziché tornare subito a casa, fermarmi in questo locale. Prendevo un caffè e mettevo cento lire nel juke box per ascoltare le canzoni che la radio si rifiutava di trasmettere: “Dio è morto” e Auschwitz” di Guccini, qualcosa di Jannacci, “Albergo ad ore” di Herbert Pagani… Il mio gusto musicale di cantautore impegnato si è formato anche lì.
Il 12 aprile di ogni anno la stazione all’improvviso cambiava faccia: pulita, tirata a lucido, piena di pubblicità multicolori… poi uscivi sul corso Sempione ed anche lì tutto era nuovo, rutilante, policromo, festoso… cominciava la Fiera Campionaria ed i suoi quindici giorni erano il momento magico della Bullona che vedeva decuplicare il numero dei passeggeri: alle facce stanche dei lavoratori ed a quelle arzille degli studenti si mischiavano centinaia e centinaia di visitatori della Fiera, i piedi gonfi, l’aria stravolta, le braccia stracariche di gadgets, opuscoli e volantini… quando il 27 aprile la Fiera chiudeva e tutto ripiombava nella normalità a me veniva quasi il magone

Enrico

Enrico è stato per qualche anno il mio amico più caro. Eravamo inseparabili, in perfetta sintonia su ogni argomento, dal più serio al più frivolo; ci confidavamo tutto, ci intendevamo al volo: lo ricordo come una delle persone più importanti e più significative della mia vita. Pensare che lo avevo conosciuto quasi per caso. C’era stato un periodo in cui non mi trovavo bene coi miei compagni di liceo e, forse per necessità, mi ero avvicinato ad un compagno di classe chiuso, arcigno, isolato, quasi asociale. Avevamo cominciato a vederci qualche volta fuori di scuola, ad andare al cinema o allo stadio (sempre e soltanto a vedere la mitica Inter!!!), a volte da soli a volte con la sorella di lui, una tipa silenziosa, riservata, un po’ a disagio per via di un lieve difetto di pronuncia, che oggi è una delle Presidi più creative ed innovative della scuola superiore milanese; poi, quando verso la fine dell’anno scolastico il nostro sodalizio forzoso stava diventando un’amicizia vera, lui era stato bocciato, aveva cambiato classe ed abbiamo quasi smesso di frequentarci. Però una delle ultime volte che ci eravamo visti mi aveva presentato un suo nuovo compagno di classe: Enrico appunto, che abitava in piazzale Damiano Chiesa. Quando ho cominciato a frequentarlo, per andarlo a trovare scendevo alla Bullona. Nei primi tempi parlavamo di calcio, di ragazze, di canzoni, poi lui mi aveva introdotto alle problematiche del sottosviluppo e della fame nel mondo; militava in un movimento al quale anch’io mi ero iscritto, entrando nella Sede Regionale, di cui poi sarei divenuto in seguito responsabile. Quasi tutte le sere scendevo dal treno alle 20.04. La Bullona a quell’ora era semideserta, immersa in una luce tenue, l’edicola era già chiusa, al bar facevano le pulizie e spandevano per terra la segatura. Traversavo corso Sempione, imboccavo via Emanuele Filiberto e suonavo a casa di Enrico col cuore in tumulto ed un po’ di tremore nervoso… vabbè diciamola tutta, mi ero preso una cotta per sua sorella, una ragazza molto carina, molto più giovane di me, ma che mi metteva un po’ soggezione per la sua aria da donna, un po’ troppo elegante, raffinata e sofisticata per un ragazzaccio come me. Il padre di Enrico sonnecchiava davanti alla TV, la madre mi accoglieva come un figlio o come un vecchio amico. Pur parlando abitualmente in italiano si rivolgeva a me in dialetto bresciano, perché sapeva che io adoro sentir parlare dialetto, mi offriva un caffè, poi passavo a salutare la sorella che di solito suonava il pianoforte o studiava (all’epoca io frequentavo l’università, lei il mitico Beccaria…). Verso le 21 Enrico ed io uscivamo per andare in Sede, percorrendo a piedi un lungo vialone alberato pieno di giovanissime prostitute. Non mi era mai capitato prima, e forse non mi è più capitato in seguito, di incontrare una persona con cui fossi in perfetta intesa su tutto. Qualunque argomento affrontassimo non avevamo bisogno di parlarci: ci capivamo con un semplice cenno del viso. Ci siamo detti tutto ma proprio tutto, anche sugli argomenti più intimi, delicati o spinosi. Solo una cosa non gli ho mai detto, quella che ho confessato poc’anzi in queste pagine. Chissà se se ne sarà mai accorto? Sono certo di sì, ma non ne abbiamo mai parlato.
In Sede, quando cominciava a farsi tardi, tenevo d’occhio l’orologio per paura di perdere l’ultimo treno, ma c’era sempre qualcuno che per evitarmi il pezzo a piedi fino a piazzale Lotto ed il tratto in metrò, si offriva di riaccompagnarmi in macchina alla Bullona. Di notte l’aspetto della stazione era inquietante, spettrale, quasi da incubo: le poche persone che si vedevano sotto gli alberi, e che nel buio parevano fantasmi, avevano un’aria per niente raccomandabile e non di rado venivano a minacciarti o magari solo a romperti le scatole; allora, se non era l’ora del treno o se annunciavano un ritardo, preferivo uscire sul piazzale e rifugiarmi in un piccolo bar lì accanto per un ultimo caffè, nella speranza di vedere almeno una volta il proprietario, un cantautore che all’epoca mi piaceva moltissimo, ma che ho poi svalutato, scoprendo che le sue canzoni erano spesso rimasticature di pezzi stranieri non ancora usciti in Italia: un Donovan della mutua, un Bob Dylan dei poveri; ma all’epoca ero un po’ sprovveduto ed un certo modo di arpeggiare in re maggiore mi dava un brivido in fondo alla schiena; non parliamo poi di versi come:
…se sarà lì con te, fa’ che non pianga mai,
che non abbia mai freddo, che non soffra mai più.
E fa’ che i suoi capelli siano sempre più lunghi
perché solo così è più bella che mai…
che mi suscitavano un’emozione di cui oggi un po’ mi vergogno e che mi serve a tenere a freno il sorrisino di superiorità che mi nasce spontaneo ogni volta che vedo i miei figli commuoversi per Gigi D’Alessio:
…il telefono dà forza tu lo sai
ti fa dire ciò che non diresti mai…
oppure
…miele che poi diventa sale
se stiamo in riva al mare
e un’onda ci accarezzerà…
A proposito di canzoni, ho un altro ricordo di quegli anni legato alla stazione: una volta che ero andato a trovare Enrico, per passare la serata con lui e non per andare in Sede, mi sono trovato coinvolto negli scontri tra un gruppo di facinorosi che volevano entrare al Vigorelli senza biglietto per assistere al concerto dei Led Zeppelin e le forze dell’ordine: quella volta la Bullona, pur nella sua veste notturna, mi era parsa un rifugio sicuro e protettivo.
Enrico si è sposato nel 1975. E’ partito con la moglie per tre anni di servizio civile in Brasile, poi è andato a vivere lontano da qui, in quell’angolo di Lombardia puntato verso sud est che sa già di Emilia, e profuma di campagna grassa e fertile, di salame buono, cotechino e mostarda. Ci siamo scritti qualche volta, una domenica sono anche andato a trovarlo (era da poco diventato papà…) ma ormai la magia del nostro rapporto si era consunta. Da ventidue anni l’ho perso di vista; so dai giornali che è entrato in politica ed è consigliere comunale. Per ventidue anni non ho più avuto occasione di passare dalla Bullona.

Padri e figli

Quando ho rimesso piede alla Bullona nel settembre del 2002 ho avuto una sensazione sgradevolissima. Una cosa che mi era sempre piaciuta di questa stazione era il suo aspetto un po’ “naif”: guardando dal ponte sul lato di sinistra (binario 2) dove c’era il bar si dominava tutta la scena: le panchine di legno verde, gli alberi, la fontanella: bastava un colpo d’occhio per vedere se c’era il tuo amico o la tua compagna di classe. In questi ventidue anni, (ma mi verrebbe da scrivere “in mia assenza”), hanno costruito un’immensa pensilina metallica con piloni enormi sempre di metallo. Praticamente questa struttura occupa l’intera stazione che a chi la guarda adesso pare angusta, soffocante: non puoi vedere chi c’è e di chi non c’è, inoltre sembra sempre affollata anche quando ci sono quattro gatti, perché quasi tutto lo spazio è occupato dalle strutture in ferro. Anche le panchine di legno stile parco sono scomparse, sostituite da anonime panche in cemento. Un policromo tabellone luminoso annuncia i treni in arrivo, un altoparlante ripete l’annuncio. “Ai miei tempi” l’altoparlante c’era già, ma annunciava solo i ritardi. Quanto all’altro binario, quello per Milano Cadorna, il muro non è più stato riverniciato e si è coperto di graffiti colorati, rivendicazioni politiche, scritte oscene, umidità.
Ma quali eventi della vita mi hanno riportato dopo tanto tempo alla Bullona?
Nel mio lavoro di insegnante c’è un aspetto che trovo particolarmente sgradevole, difficile e doloroso: convocare i genitori di un alunno problematico.
E’ un momento penosissimo: due adulti, due persone con pari umanità e pari dignità si trovano l’una di fronte all’altra, ma il rapporto non è per niente paritario: uno è il gatto e l’altro è il topo, uno è armato, l’altro disarmato. Per trovare un rapporto altrettanto disagevole, impari e difficile riesco a pensare solo al rapporto tra un medico ed un paziente affetto da una patologia grave. L’insegnante si mordicchia le labbra, giocherella con la penna poi attacca con le lamentele: suo figlio fa questo, quest’altro e quest’altro ancora. Il padre o la madre queste cose le sa benissimo, ma sa anche di non poterci far niente e sa già che l’insegnante prima o poi se ne uscirà con la classica, risaputissima frase: lei che è il genitore gli faccia fare così, altrimenti…
Fortunato il gatto che non diventerà mai topo; anche il medico se si ammala può contare su amicizie, conoscenze e competenze che lo aiutano… ma mille volte infelice l’insegnante che si trova a “renverser les roles” per dirla con Brassens… a trovarsi genitore dall’altro lato della barricata.
Mio figlio ha scelto di andare in una scuola non lontana dal Liceo che io ho frequentato da ragazzo, quindi per qualche mese (poi si è ritirato) lui ha preso il treno a Cormano, lui è sceso alla Bullona, lui si è trovato a vivere compagni, esperienze, emozioni nuove; lui si è sentito dire la fatidica frase “domani vieni accompagnato dai tuoi genitori”. Ed io diverse volte ho salito e disceso le scale che quarant’anni prima mi avevano visto timido ed esitante ginnasiale. Ormai ho superato i cinquanta… da qualche anno sono ammalato… beh mi sembra che anche la Bullona sia invecchiata con me, non l’ho mica trovata tanto bene se devo essere sincero. Vederla com’è mi dà un senso di disagio, ma ricordarla com’era… è come ricordare la giovinezza.

Epilogo

Tre giorni fa ho venduto la macchina. Il compratore mi ha proposto di perfezionare l’acquisto presso un notaio di Buccinasco, poi mi ha proposto un notaio di Cusano Milanino, infine mi ha chiesto se mi andava bene un notaio di Milano: piazza Sei Febbraio n.4.
Ci sono andato in un pomeriggio di sole, e ne ho approfittato per fare una passeggiata a piedi. Sono passato davanti al mio vecchio Liceo, ho sfiorato la casa di Enrico (saranno ancora vivi i suoi genitori? e che ne sarà stato di sua sorella?) Poi, per tornare a casa, sono sceso alla Bullona.
Ho preso un ultimo caffè nel bar che mi accoglieva da ragazzo (muri scrostati, aria di smobilitazione, un nuovo gestore, ma soprattutto non c’è più il juke box), ho sceso la scala del binario 2 cercando di ricordarlo com’era… poi mi sono seduto ed ho aspettato il treno, giocando a pensare: domani c’è greco… sabato c’è la festa della Laura: quasi quasi le chiedo di invitare Enrico e sua sorella… devo assolutamente sentire l’ultimo pezzo dei Rokes… bisogna darsi da fare per organizzare una manifestazione a livello nazionale a Firenze… se invitassimo Follerau? o monsignor Camara? O tutti e due assieme?
Poi mi sono riscosso e sono salito in treno. Quando il convoglio si è messo in moto solo la paura di fare la figura dello scemo mi ha impedito di dire ad alta voce (ma confesso che l’ho sussurrato) “Ciao, Bullona”.

venerdì 9 settembre 2011

MATERIALE PER UN RACCONTO SUGLI ANNI CINQUANTA


Cielo rigato da fili del telegrafo e dell'elettricità; tanta campagna, rogge, mucche, cascine appena fuori dei centri urbani; morto un papa (Pacelli) se ne fa un altro (Giovanni XXIII); brillantina (Linetti e Tricofilina); macchina per cucire (Singer e Borletti); lucido per scarpe (Brill, Tana e Guttalin); per i più piccini a metà mattina Cremina Ferrero di cioccolato e nocciola (allora non si chiamava ancora Nutella...) in vasettini di bachelite a forma di scodellina o di trottola; per merenda fruttino Zuegg, piccolo parallelepipedo durissimo e dolcissimo di marmellata alla mela cotogna, ambìto dai bambini perché dentro c'è in omaggio un francobollo straniero; qualche volta la veneziana o la cremonese; nelle grandi occasioni cioccolato bianco o al latte, la mamma però si mangia il fondente, (Italcima Nestlè e Perugina); poi, la sera, ai bambini buoni la dolce Euchessina (e quelli cattivi? non esistono bambini cattivi, ma solo bambini indisposti, anche a loro la dolce Euchessina). Variante scolastica (da dire solo tra maschi e solo quando la maestra non sente: e quelli cattivi? che spingano); si scrive Andrews, ma si pronuncia
Endrius; polveri per l'acqua da tavola detta anche acqua di Viscì (Idriz e Idrolitina); carta gialla dal macellaio; tonno e mostarda venduti sfusi nella carta oleata; zucchero venduto sfuso nella carta blu (in milanese carta de sucher) ottima per cataplasmi; Motom e Cucciolo; Vespa e Lambretta; blue jeans, teddy boys, flipper, juke box e rock and roll; moneta d'argento da 500 lire con le vele al contrario, così bella che ti viene voglia di collezionarla, anziché spenderla; se la squadra del vostro cuore ha vinto brindate con Stock 84, se ha perso consolatevi con Stock 84; nelle famiglie à la page Brylcreem e Bio Dop; in tutte le famiglie spazzolino e dentifricio (Durban's, Colgate, Binaca, Chlorodont); spuma... chinotto... tamarindo e relative caramelle... rabarbaro e relative caramelle... mentini (antenati della Menta Caremoli anni '60); tram e taxi (almeno a Milano) verde oliva come la maglia della Legnano, che Baldini indossa con un pizzico di tremore, perché fino a tre anni prima è stata la maglia di Bartali: giradischi incorporato nella radio, quindi mamma mi fai il piacere di far sparire quel pastorello che diventa blu quando c'è sereno e rosa quando piove, perché quel coperchio, come vedi, si solleva e lì dentro ci devo mettere i miei dischi a settantotto giri; Angelini e Fragna... Clara Jajone... Villa e Tajoli... o i quarantacinque giri... Modugno... Buscaglione... gli urlatori; a Natale il panettone lo offre la ditta, idem per la colomba a Pasqua (Motta nel cartone blu, Alemagna nel cartone azzurro o Frontini nel cartone rosa, tutti con scritte rigorosamente in oro); quattro quotidiani del pomeriggio (La Notte, Corriere d'Informazione, Corriere Lombardo e Milano Sera) ciascuno coi suoi strilloni e i suoi titoli a nove colonne: la crisi di Suez e la rivolta d'Ungheria; Wilma Montesi e Fenaroli; il Real Madrid di Di Stefano e il Brasile di Pelé; la Callas e la Tebaldi; Gaul tutto solo sul Bondone innevato e i due matti nella scuola di Terrazzano; la Domenica del Corriere con le tavole di Beltrame o di Molino: extraterrestri, mostri preistorici che ancora vivono in un lago dell'Ecuador, ma soprattutto esempi toccanti di eroismo quotidiano; fungo del Tibet; Mokarabia, Mokito, Moka Efti; caffettiera napoletana in casa, Cimbali Espresso..."un Cimbalino" al bar; tinteggiatura arlecchino (Tintal della Max Meyer e Ducocasa della Ducotone); sala con buffé e controbuffé in stile chippendale e, alle pareti, due quadri rappresentanti lo stesso paesaggio montano-lacustre in due stagioni diverse; cucina "mangiabile", tinello luminoso, abitabile dove prima o poi quando mio marito si deciderà metteremo la televisione; comunisti mangiapreti, democristiani forchettoni; il venerdì baccalà per gli adulti, palombo per i bambini: peccato mortale, anzi mortalissimo mangiar carne il venerdì, "...e peggio di quello c'è solo un altro peccato... ci siamo intesi?...", e i maschi assentivano e le femmine si guardavano attorno con aria perplessa, salvo poi assentire anche loro per non far la figura delle tonte; curato con la veste lunga fino ai piedi, perini in testa ai bambini ribelli al catechismo; oratori assolati, monosessuati, asessuati; suore all'asilo, in chiesa, in ospedale, per le strade, dappertutto; Mira il tuo popolo o bella Signora; Mira Lanza con le figurine nei suoi prodotti Kop, Lip, Ava, Miral da 5 a 100 punti; case chiuse sempre aperte, poi la legge Merlin chiude le case chiuse, speranze e timori di una riapertura delle case chiuse (e tu cosa ne pensi? mah, è un bel casino); "con l'entrata in vigore della legge Merlin non è più permesso ciò che la legge Merlin proibisce", come ha spiegato Zatterin al telegiornale; televisione al bar, il giovedì ed il sabato (Lascia o raddoppia e Musichiere; Mike Bongiorno e Mario Riva); radio le altre sere, specialmente il venerdì con Rosso e Nero di Corrado; vogliate gradire un programma di melodie e ritmi in attesa di collegarci con Bolzano per trasmettere la radiocronaca dell'arrivo della diciottesima tappa del Giro d'Italia; un uomo solo al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi; la Dama Bianca non ha cuore, è una rovinafamiglie e le rovinafamiglie non pensano mai che nella famiglia ci sono i bambini; i bambini li porta la cicogna; bambini. non perdetevi Rin Tin Tin e Zurlì mago del giovedì col mantello e la parrucca tutte a lustrini; bambini al mare in colonia, tutti in fila con la maglietta bianca ed i pantaloncini marroni sempre troppo lunghi o troppo corti... si fermano le macchine si fermano i tranvai, e noi che siamo giovani non ci fermiamo mai, dài dài dài, combiniamo tanti guai... dài dài dài, combiniamo tanti guai... le nostre signorine van tutte in areoplano, per far vedere il culo al popolo italiano dài dài dài, combiniamo tanti guai... dài dài dài, combiniamo tanti guai... e torneremo a casa con la gioia nei cuori, a rompere le balle ai nostri genitori, dài dài dài, combiniamo tanti guai... dài dài dài, combiniamo tanti guai, però stasera c'è il cinema, forse dànno un film di banditi, poi quando torno a casa vado in montagna a Magreglio con mia zia e tu dove vai in campagna? a Caresti, provincia di Castù; il nonno che racconta di quella volta che gli arditi presero il Monte Nero e lo zio che racconta di quella volta che i fascisti presero suo fratello (voce alta e squillante nel primo racconto, sommessa nel secondo) al nipote, tanto per fargli staccare gli occhi per un momento dall'albo di Tex o del grande Blek "...mai che leggano Topolino o Tiramolla questi benedetti bambini del giorno d'oggi che non sanno nemmeno cosa siano la guerra, la fame, la miseria, la carne razionata, l'allarme in piena notte..."; il medico con la Millecento che viene in casa anche di notte... il suo disturbo... mille lire, grazie; le punture con la siringa in vetro che va bollita cinque minuti e l'ago durissimo che fa un male della madonna; le supposte Causith per gli adulti e le Polagin per i bambini: siamo sotto Bruzzano, siamo sotto la DC, siamo sotto gli americani, siamo sotto il padrone (siamo sempre sotto qualcuno), uno fisso alla Fiorentina, se vinco alla Sisal non vado più a bottega.

venerdì 2 settembre 2011

DUE CORTILI

Ci sono due cortili che non esistono più, se non nella mia memoria (e come avrebbero potuto sopravvivere nel decennio tecnologico partorito da un dopoguerra che ha fatto piazza pulita di tutto quello che era "vecchio", dalle tradizioni alimentari alle feste popolari, dal dialetto, al rispetto per la natura, salvo poi riscoprire quest'ultimo, trent'anni dopo, sotto forma di ecologismo fanatico ed eccessivo che si preoccupa più della pianticella d'ortica e del gufo grifone che degli uomini e delle donne?), ci sono due cortili, dicevo che hanno rappresentato per me un mondo, un universo personale, inaccessibile agli altri, che, a seconda della mia fantasia del momento si trasformava nella giungla di Kipling o nell'Africa di Verne, nella luna di cui all'epoca erano pieni i giornali o nei campi della prima guerra mondiale conosciuti dai racconti del nonno prima ancora che dai libri di scuola; nella piana di Alamo dove Davy Crockett, quello dei fumetti, moriva con la bandiera americana in pugno: “laggiù alle Termopili un greco scampò/ da Alamo invece nessuno tornò/ e viva rimase seppure strappata/ la vecchia gloriosa bandiera stellata”; (quanti anni sarebbero passati prima di scoprire che il vero Davy Crockett morì tenendo idealmente tra le mani il tricolore messicano su cui aveva messo la data della rivoluzione al posto dello stemma dello stato?) o nella Cuba da cui Castro cacciava Batista e preparava al suo popolo un futuro luminoso di felicità di cui sentivo favoleggiare dagli operai comunisti mentre consumavano il pranzo di mezzogiorno; un universo non dissimile da quello che con felice intuizione poetica, Quasimodo ha chiamato "rifugi di dolcezze un tempo assidue" e Paolo Conte "un po' d'Africa in giardino tra l'oleandro e il baobab".
Questi due cortili sono due pezzi della mia vita e sono ben contento che non esistano più: ho rivisto altri "santuari" della mia personale mitologia, anche se meno significativi (una spiaggia di Chiavari, un torrente in Valle Imagna, piazza Sant'Apollinare a Milano...) ma, come dice Gaber in una delle sue più belle canzoni "quasi sempre c'è un prato che aveva un colore che adesso non ha" ed allora tanto vale rivisitarli solo con gli occhi del cuore.
La curta lunga
Oggi al numero civico 5 di via Sgambati a Milano c’è una banca, circondata da alcune anonime palazzine stile anni Sessanta; una volta c'era la Cascina Costanza, detta la curta lunga. I miei antenati ci sono vissuti per secoli, io ci sono nato e ci ho trascorso i primi tre anni di vita.
Vi si accedeva per un vicolo sassoso, poi a sinistra si entrava sotto un portico e si era nella corte, a prima vista una fattoria come tutte le altre, ma sulla destra, anziché avere le stalle aveva delle case ed un portico che immettevano in un'altra fattoria simmetrica alla prima che terminava appunto con le stalle. Di qui il nome dialettale di curta lunga.
Oltre le stalle c'era un fossato fiancheggiato da gelsi, poi cominciavano i prati che si perdevano a vista d'occhio fin oltre l'orizzonte, ed era una vista stupenda quel verde cupo dei gelsi contrastante con il verde tenero dei prati ed un cielo che, nella mia memoria è sempre azzurro, limpido, con una sola nuvoletta bianca in alto a destra.
Nella corte un cane legato alla catena forse un tantino invidioso di gatti, galli, galline, tacchini che razzolavano in libertà. La sera tornavano gli uomini con le mucche ed era uno spettacolo vedere quell'imponente sfilata.
Il lunedì le donne cantavano lavando i loro panni neri in grandi mastelli di legno. Ne ho un ricordo così vivo ed intenso che ripensandoci mi sembra di sentire il profumo del sapone e della candeggina e di udire le loro voci.
Un sabato di sera al tramontar del sol
sfondavasi la bella barca sul lago Maggior.
Intra, Pallanza, c'è un lungo sentier
portarono le nove vittime al cimiter.
Oppure
Sull'altalena io voglio andar,
mi fa l'effetto del mal di mar
com'è bello dondolar, dondolar.
O ancora
Il sedici di agosto sul far della mattina
il boia ha già disposto l'orrenda ghigliottina,
mentre Caserio dormiva ancor
senza pensare al triste orror.
Risento la mia voce che chiede: "Nonna, chi era Caserio?" e la sua risposta: "Era un tale che ha ucciso il re d'Italia, Umberto I". Ancor oggi il laureato in lettere, l'insegnante di storia che sono diventato sa che Caserio attentò alla vita di un presidente francese e che l'assassino di Umberto si chiamava Bresci, ma il bambino che sonnecchia dentro me e che ogni tanto, quando sono solo o triste viene a farmi compagnia non ha dubbi: Caserio è e rimane l'attentatore di Umberto, come appresi tanti e tanti anni fa, in un afoso giorno di luglio, mentre le cicale cantavano e persino il gatto rinselvatichito del Ciprandi non aveva neanche la forza di sfuggirmi ed allora si lasciava prendere ed accarezzare.




...vi si accedeva per un vicolo sassoso, poi a sinistra si entrava sotto un portico e si era nella corte, a prima vista una fattoria come tutte le altre...
Il cortile
Per anni la parola cortile per me ha significato solo ed esclusivamente il cortile della casa in cui sono vissuto dai tre agli undici anni, il cortile per antonomasia, appunto.
Era un cortile, almeno nel ricordo, abbastanza grande, forse perché, salvo l'ora del mezzogiorno e le due ore dalle cinque alle sette del pomeriggio quando si popolava di lavoratori, non ci entrava mai nessuno, era tutto mio e questo me lo faceva sembrare immenso. Vi si accedeva dal lato est, occupato, oltre che dal cancello d'entrata, anche da una costruzione la cui porta era stata murata, ma lasciando i quattro scalini d'accesso, sui quali mi sedevo a giocare. Sul lato sud cinque scalini portavano allo "spaccio", un minuscolo bar-supermercato per gli operai della Max Meyer ed alla scala che saliva al primo piano dove abitavo io; sul lato ovest la caserma dei pompieri della Max Meyer ed una vasca semicircolare in cemento grezzo (quante migliaia di volte mi ci sarò sbucciato le ginocchia appoggiandomici contro?) piena di pesci rossi acquistati chissà da chi e di pesci persico pescati dagli operai coi più disparati sistemi (ma di solito usando una scatoletta di carne Simmenthal vuota) nel ruscelletto che scorreva proprio di fronte, parallelo alla statale Comasina, dove oggi c'è lo svincolo dell'autostrada intitolato a Costante Girardengo, e regalati a me che ringraziavo con un grido di gioia e li gettavo nella vasca insieme agli altri, poi, giorno dopo giorno, li vedevo crescere e prosperare, splendido esempio di convivenza pacifica interetnica. Il lato nord era limitato da un ampio muraglione che divideva il cortile dalla fabbrica. Una parte del cortile era piena di erbacce che, a volte, d'estate, facevano strani, bellissimi fiori che attiravano farfalle dai colori incredibili; nel mezzo del cortile ricoperto di ghiaietta c'erano tre alberi: un ciliegio, un fico ed un albicocco, i primi due generosissimi di frutti, il terzo malato e quasi per intero ricoperto di formiche dalle quali ero affascinato: stavo per ore ad osservarne l'incessante lavorìo, soprattutto quando si approvvigionavano di una resina simile a marmellata che l'albero emetteva copiosamente e la trasportavano nel formicaio a terra.
L'aria era impregnata dell'odore acre della vernice, ma a me piaceva, era l'odore di casa ed ancor oggi una zaffata di vernice nelle narici mi riporta sensazioni di un'infanzia stupenda.
A mezzogiorno il cortile si riempiva di operai troppo poveri per potersi permettere la trattoria sull'angolo tra via Comasina e via Novate o troppo schizzinosi per andare alla mensa della ditta. Sedevano per terra con la loro schiscèta e un quarto di vino tra le gambe e mangiavano chiacchierando allegramente. Mi piaceva sedermi in mezzo a loro: mi chiedevano della scuola; mi raccomandavano di ascoltare la radiocronaca del giro d'Italia e di sapergli dire, alle cinque, quando smettevano di lavorare e tornavano lì allo spaccio a bere un bianchino e a farsi una partita a carte, ordine d'arrivo e classifica generale; mi sbeffeggiavano (anche allora!) per i risultati deludenti dell'Inter. A me sembravano felici.
Poi all'una il cortile tornava deserto e a tenermi compagnia c'erano solo l'uomo dello spaccio: un vecchio marinaio che aveva girato il mondo e che mi parlava dei suoi viaggi e delle sue avventure (devo a lui la febbre del turismo che da sempre mi divora), il custode, un buon vecchio semiparalizzato, sempre un po' brillo e l'uomo delle pulizie, un veneto che era stato in Etiopia e che non aveva una casa: si era costruito con le sue mani una baracca di latta e ci viveva con la moglie, in un prato proprio di fronte a casa mia, dove adesso c'è il campo di calcio dell'A.C. Bruzzano. Mi parlava per ore della sua nipotina più giovane di me... tanto bella... tanto bionda... tanto simpatica... tanto brava a scuola... Non la conobbi mai.
Anni ed anni dopo venni a sapere dai giornali che la bambina di cui tanto avevo sentito parlare da piccolo si era diplomata... e che per festeggiare la promozione i genitori le avevano offerto un viaggio a Londra... e lei tutta contenta era andata in Questura a fare il passaporto..., ma eravamo negli anni di piombo e la bomba di un criminale la inchiodò a terra in un lago di sangue. Lo zio, povero vecchio, morì di crepacuore poco tempo dopo.