venerdì 2 settembre 2011

DUE CORTILI

Ci sono due cortili che non esistono più, se non nella mia memoria (e come avrebbero potuto sopravvivere nel decennio tecnologico partorito da un dopoguerra che ha fatto piazza pulita di tutto quello che era "vecchio", dalle tradizioni alimentari alle feste popolari, dal dialetto, al rispetto per la natura, salvo poi riscoprire quest'ultimo, trent'anni dopo, sotto forma di ecologismo fanatico ed eccessivo che si preoccupa più della pianticella d'ortica e del gufo grifone che degli uomini e delle donne?), ci sono due cortili, dicevo che hanno rappresentato per me un mondo, un universo personale, inaccessibile agli altri, che, a seconda della mia fantasia del momento si trasformava nella giungla di Kipling o nell'Africa di Verne, nella luna di cui all'epoca erano pieni i giornali o nei campi della prima guerra mondiale conosciuti dai racconti del nonno prima ancora che dai libri di scuola; nella piana di Alamo dove Davy Crockett, quello dei fumetti, moriva con la bandiera americana in pugno: “laggiù alle Termopili un greco scampò/ da Alamo invece nessuno tornò/ e viva rimase seppure strappata/ la vecchia gloriosa bandiera stellata”; (quanti anni sarebbero passati prima di scoprire che il vero Davy Crockett morì tenendo idealmente tra le mani il tricolore messicano su cui aveva messo la data della rivoluzione al posto dello stemma dello stato?) o nella Cuba da cui Castro cacciava Batista e preparava al suo popolo un futuro luminoso di felicità di cui sentivo favoleggiare dagli operai comunisti mentre consumavano il pranzo di mezzogiorno; un universo non dissimile da quello che con felice intuizione poetica, Quasimodo ha chiamato "rifugi di dolcezze un tempo assidue" e Paolo Conte "un po' d'Africa in giardino tra l'oleandro e il baobab".
Questi due cortili sono due pezzi della mia vita e sono ben contento che non esistano più: ho rivisto altri "santuari" della mia personale mitologia, anche se meno significativi (una spiaggia di Chiavari, un torrente in Valle Imagna, piazza Sant'Apollinare a Milano...) ma, come dice Gaber in una delle sue più belle canzoni "quasi sempre c'è un prato che aveva un colore che adesso non ha" ed allora tanto vale rivisitarli solo con gli occhi del cuore.
La curta lunga
Oggi al numero civico 5 di via Sgambati a Milano c’è una banca, circondata da alcune anonime palazzine stile anni Sessanta; una volta c'era la Cascina Costanza, detta la curta lunga. I miei antenati ci sono vissuti per secoli, io ci sono nato e ci ho trascorso i primi tre anni di vita.
Vi si accedeva per un vicolo sassoso, poi a sinistra si entrava sotto un portico e si era nella corte, a prima vista una fattoria come tutte le altre, ma sulla destra, anziché avere le stalle aveva delle case ed un portico che immettevano in un'altra fattoria simmetrica alla prima che terminava appunto con le stalle. Di qui il nome dialettale di curta lunga.
Oltre le stalle c'era un fossato fiancheggiato da gelsi, poi cominciavano i prati che si perdevano a vista d'occhio fin oltre l'orizzonte, ed era una vista stupenda quel verde cupo dei gelsi contrastante con il verde tenero dei prati ed un cielo che, nella mia memoria è sempre azzurro, limpido, con una sola nuvoletta bianca in alto a destra.
Nella corte un cane legato alla catena forse un tantino invidioso di gatti, galli, galline, tacchini che razzolavano in libertà. La sera tornavano gli uomini con le mucche ed era uno spettacolo vedere quell'imponente sfilata.
Il lunedì le donne cantavano lavando i loro panni neri in grandi mastelli di legno. Ne ho un ricordo così vivo ed intenso che ripensandoci mi sembra di sentire il profumo del sapone e della candeggina e di udire le loro voci.
Un sabato di sera al tramontar del sol
sfondavasi la bella barca sul lago Maggior.
Intra, Pallanza, c'è un lungo sentier
portarono le nove vittime al cimiter.
Oppure
Sull'altalena io voglio andar,
mi fa l'effetto del mal di mar
com'è bello dondolar, dondolar.
O ancora
Il sedici di agosto sul far della mattina
il boia ha già disposto l'orrenda ghigliottina,
mentre Caserio dormiva ancor
senza pensare al triste orror.
Risento la mia voce che chiede: "Nonna, chi era Caserio?" e la sua risposta: "Era un tale che ha ucciso il re d'Italia, Umberto I". Ancor oggi il laureato in lettere, l'insegnante di storia che sono diventato sa che Caserio attentò alla vita di un presidente francese e che l'assassino di Umberto si chiamava Bresci, ma il bambino che sonnecchia dentro me e che ogni tanto, quando sono solo o triste viene a farmi compagnia non ha dubbi: Caserio è e rimane l'attentatore di Umberto, come appresi tanti e tanti anni fa, in un afoso giorno di luglio, mentre le cicale cantavano e persino il gatto rinselvatichito del Ciprandi non aveva neanche la forza di sfuggirmi ed allora si lasciava prendere ed accarezzare.




...vi si accedeva per un vicolo sassoso, poi a sinistra si entrava sotto un portico e si era nella corte, a prima vista una fattoria come tutte le altre...
Il cortile
Per anni la parola cortile per me ha significato solo ed esclusivamente il cortile della casa in cui sono vissuto dai tre agli undici anni, il cortile per antonomasia, appunto.
Era un cortile, almeno nel ricordo, abbastanza grande, forse perché, salvo l'ora del mezzogiorno e le due ore dalle cinque alle sette del pomeriggio quando si popolava di lavoratori, non ci entrava mai nessuno, era tutto mio e questo me lo faceva sembrare immenso. Vi si accedeva dal lato est, occupato, oltre che dal cancello d'entrata, anche da una costruzione la cui porta era stata murata, ma lasciando i quattro scalini d'accesso, sui quali mi sedevo a giocare. Sul lato sud cinque scalini portavano allo "spaccio", un minuscolo bar-supermercato per gli operai della Max Meyer ed alla scala che saliva al primo piano dove abitavo io; sul lato ovest la caserma dei pompieri della Max Meyer ed una vasca semicircolare in cemento grezzo (quante migliaia di volte mi ci sarò sbucciato le ginocchia appoggiandomici contro?) piena di pesci rossi acquistati chissà da chi e di pesci persico pescati dagli operai coi più disparati sistemi (ma di solito usando una scatoletta di carne Simmenthal vuota) nel ruscelletto che scorreva proprio di fronte, parallelo alla statale Comasina, dove oggi c'è lo svincolo dell'autostrada intitolato a Costante Girardengo, e regalati a me che ringraziavo con un grido di gioia e li gettavo nella vasca insieme agli altri, poi, giorno dopo giorno, li vedevo crescere e prosperare, splendido esempio di convivenza pacifica interetnica. Il lato nord era limitato da un ampio muraglione che divideva il cortile dalla fabbrica. Una parte del cortile era piena di erbacce che, a volte, d'estate, facevano strani, bellissimi fiori che attiravano farfalle dai colori incredibili; nel mezzo del cortile ricoperto di ghiaietta c'erano tre alberi: un ciliegio, un fico ed un albicocco, i primi due generosissimi di frutti, il terzo malato e quasi per intero ricoperto di formiche dalle quali ero affascinato: stavo per ore ad osservarne l'incessante lavorìo, soprattutto quando si approvvigionavano di una resina simile a marmellata che l'albero emetteva copiosamente e la trasportavano nel formicaio a terra.
L'aria era impregnata dell'odore acre della vernice, ma a me piaceva, era l'odore di casa ed ancor oggi una zaffata di vernice nelle narici mi riporta sensazioni di un'infanzia stupenda.
A mezzogiorno il cortile si riempiva di operai troppo poveri per potersi permettere la trattoria sull'angolo tra via Comasina e via Novate o troppo schizzinosi per andare alla mensa della ditta. Sedevano per terra con la loro schiscèta e un quarto di vino tra le gambe e mangiavano chiacchierando allegramente. Mi piaceva sedermi in mezzo a loro: mi chiedevano della scuola; mi raccomandavano di ascoltare la radiocronaca del giro d'Italia e di sapergli dire, alle cinque, quando smettevano di lavorare e tornavano lì allo spaccio a bere un bianchino e a farsi una partita a carte, ordine d'arrivo e classifica generale; mi sbeffeggiavano (anche allora!) per i risultati deludenti dell'Inter. A me sembravano felici.
Poi all'una il cortile tornava deserto e a tenermi compagnia c'erano solo l'uomo dello spaccio: un vecchio marinaio che aveva girato il mondo e che mi parlava dei suoi viaggi e delle sue avventure (devo a lui la febbre del turismo che da sempre mi divora), il custode, un buon vecchio semiparalizzato, sempre un po' brillo e l'uomo delle pulizie, un veneto che era stato in Etiopia e che non aveva una casa: si era costruito con le sue mani una baracca di latta e ci viveva con la moglie, in un prato proprio di fronte a casa mia, dove adesso c'è il campo di calcio dell'A.C. Bruzzano. Mi parlava per ore della sua nipotina più giovane di me... tanto bella... tanto bionda... tanto simpatica... tanto brava a scuola... Non la conobbi mai.
Anni ed anni dopo venni a sapere dai giornali che la bambina di cui tanto avevo sentito parlare da piccolo si era diplomata... e che per festeggiare la promozione i genitori le avevano offerto un viaggio a Londra... e lei tutta contenta era andata in Questura a fare il passaporto..., ma eravamo negli anni di piombo e la bomba di un criminale la inchiodò a terra in un lago di sangue. Lo zio, povero vecchio, morì di crepacuore poco tempo dopo.

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