venerdì 16 settembre 2011

CIAO, BULLONA

Sono le 22 del 17 maggio 2003. Tra due ore, dopo centotrenta anni di onorato servizio, andrà in pensione la stazione “Milano Nord Bullona Fiera Campionaria”, sostituita dalla nuovissima stazione “Milano Nord Domodossola Fiera Campionaria. Stazione era una, stazione è l’altra… per di più la nuova stazione è situata solo seicento metri più in là rispetto all’altra… ma la Bullona era tutta un’altra cosa.
Non ho mai visto una stazione come la Bullona: costruita a cavallo dei binari, a forma di ponte o (mi perdoni Marinetti) a guisa di un enorme ginnasta impegnato in una gigantesca flessione; Milano Nord Domodossola invece somiglia a mille stazioni del treno o del metrò: piloni, scambi, piastrelle giallognole che danno un’idea di razionale funzionalità, ma che creano nel contempo uno sgradevole “effetto bagno”.
Può sembrare stupido, ma questo cambio mi rattrista. La Bullona rappresenta per me quarant’anni della mia vita ed è stata testimone fedele della mia esistenza in almeno tre momenti indimenticabili.

Il liceo

Sono passati esattamente quarant’anni da quel 1 ottobre 1963 (era un martedì) quando accompagnato dalla mamma salii per la prima volta la lunga scalinata del binario 1 (direzione Milano Cadorna) per cominciare teso, ansioso, emozionato ed eccitato l’avventura della scuola superiore: destinazione Liceo classico Beccaria. Tre ore dopo scendevo con la testa un po’ confusa e piena di nomi strani, mai sentiti prima di allora (Garbin, Maraniello, Lassini…) o di nomi che fino ad allora avevano avuto per me tuttaltro significato (Fiorista, Meazza, Martino, Guzzi…) la scalinata del binario 2 (direzione Saronno-Meda-Asso) mostrando con ingenuo orgoglio alla mamma la lista dei libri da acquistare tra cui uno con un nome strano, esotico, misterioso, scritto con un alfabeto inaccessibile ai comuni mortali: LEIMWN.
Da quel giorno per cinque anni la Bullona divenne parte della mia vita, vi sbarcavo ogni mattina alle 7.45, vi tornavo alle 13.10 giusto in tempo per prendere il treno per Meda delle 13.24. Allora non c’era la pensilina: se faceva bello ci si sedeva sulle panchine in legno sotto gli alberi bassi, se pioveva si restava in piedi con l’ombrello aperto. C’era in verità sulla sinistra una piccola sala d’aspetto ma nessuno ci entrava: buia, sporca, tetra, sapeva di chiuso, di tanfo, forse anche di piscia… mille volte meglio restare all’aperto. Qualche volta ci capitavo anche il sabato pomeriggio o la domenica quando andavo a qualche festa o al cinema “Poliziano” una sala a poco prezzo, alla portata delle mie tasche, ma con una programmazione sempre di buon livello. Su quelle panchine in legno verde mille e mille volte ho riguardato, ora con gioia, ora con amarezza, i compiti in classe appena riconsegnati, ho sfogliato il diario per programmare il lavoro pomeridiano, ho letto il Corriere, ho ripensato agli episodi buffi o tristi della mattinata, ho sognato ad occhi aperti un amore tutto “di testa” che mi dava un’emozione strana indefinibile, impossibile da spiegare, ci vorrebbe un poeta ed infatti non ne ho mai parlato a nessuno finché non l’ho ritrovata anni dopo nella splendida canzone dei New Trolls “Tom Flaherty”. La stazione vera e propria era sopra le scale: una biglietteria anonima, un’edicola a forma di arco a 90 gradi (lì ho acquistato la maggior parte dei testi di narrativa e di poesia su cui mi sono formato, tutti rigorosamente “Oscar Mondadori”), moltissime riviste di musica leggera (Tuttomusica, Ciao amici, un’altra testata che amavo alla follia ma di cui non riesco a ricordare il nome) e quelle poche riviste pornografiche (due o tre in tutto) che ho sfogliato più che altro per curiosità in tutta la mia vita. In fianco all’edicola c’erano i bagni, su cui preferirei sorvolare, ed un piccolo bar gestito da due gemelli veronesi.
Il martedì (mi ero fatto esonerare da ginnastica complice un giovane medico che sarebbe diventato tristemente famoso alla fine degli anni Novanta, pagando con la vita la sua “disinvoltura professionale”) uscivo da scuola alle 10.55 e mi piaceva, anziché tornare subito a casa, fermarmi in questo locale. Prendevo un caffè e mettevo cento lire nel juke box per ascoltare le canzoni che la radio si rifiutava di trasmettere: “Dio è morto” e Auschwitz” di Guccini, qualcosa di Jannacci, “Albergo ad ore” di Herbert Pagani… Il mio gusto musicale di cantautore impegnato si è formato anche lì.
Il 12 aprile di ogni anno la stazione all’improvviso cambiava faccia: pulita, tirata a lucido, piena di pubblicità multicolori… poi uscivi sul corso Sempione ed anche lì tutto era nuovo, rutilante, policromo, festoso… cominciava la Fiera Campionaria ed i suoi quindici giorni erano il momento magico della Bullona che vedeva decuplicare il numero dei passeggeri: alle facce stanche dei lavoratori ed a quelle arzille degli studenti si mischiavano centinaia e centinaia di visitatori della Fiera, i piedi gonfi, l’aria stravolta, le braccia stracariche di gadgets, opuscoli e volantini… quando il 27 aprile la Fiera chiudeva e tutto ripiombava nella normalità a me veniva quasi il magone

Enrico

Enrico è stato per qualche anno il mio amico più caro. Eravamo inseparabili, in perfetta sintonia su ogni argomento, dal più serio al più frivolo; ci confidavamo tutto, ci intendevamo al volo: lo ricordo come una delle persone più importanti e più significative della mia vita. Pensare che lo avevo conosciuto quasi per caso. C’era stato un periodo in cui non mi trovavo bene coi miei compagni di liceo e, forse per necessità, mi ero avvicinato ad un compagno di classe chiuso, arcigno, isolato, quasi asociale. Avevamo cominciato a vederci qualche volta fuori di scuola, ad andare al cinema o allo stadio (sempre e soltanto a vedere la mitica Inter!!!), a volte da soli a volte con la sorella di lui, una tipa silenziosa, riservata, un po’ a disagio per via di un lieve difetto di pronuncia, che oggi è una delle Presidi più creative ed innovative della scuola superiore milanese; poi, quando verso la fine dell’anno scolastico il nostro sodalizio forzoso stava diventando un’amicizia vera, lui era stato bocciato, aveva cambiato classe ed abbiamo quasi smesso di frequentarci. Però una delle ultime volte che ci eravamo visti mi aveva presentato un suo nuovo compagno di classe: Enrico appunto, che abitava in piazzale Damiano Chiesa. Quando ho cominciato a frequentarlo, per andarlo a trovare scendevo alla Bullona. Nei primi tempi parlavamo di calcio, di ragazze, di canzoni, poi lui mi aveva introdotto alle problematiche del sottosviluppo e della fame nel mondo; militava in un movimento al quale anch’io mi ero iscritto, entrando nella Sede Regionale, di cui poi sarei divenuto in seguito responsabile. Quasi tutte le sere scendevo dal treno alle 20.04. La Bullona a quell’ora era semideserta, immersa in una luce tenue, l’edicola era già chiusa, al bar facevano le pulizie e spandevano per terra la segatura. Traversavo corso Sempione, imboccavo via Emanuele Filiberto e suonavo a casa di Enrico col cuore in tumulto ed un po’ di tremore nervoso… vabbè diciamola tutta, mi ero preso una cotta per sua sorella, una ragazza molto carina, molto più giovane di me, ma che mi metteva un po’ soggezione per la sua aria da donna, un po’ troppo elegante, raffinata e sofisticata per un ragazzaccio come me. Il padre di Enrico sonnecchiava davanti alla TV, la madre mi accoglieva come un figlio o come un vecchio amico. Pur parlando abitualmente in italiano si rivolgeva a me in dialetto bresciano, perché sapeva che io adoro sentir parlare dialetto, mi offriva un caffè, poi passavo a salutare la sorella che di solito suonava il pianoforte o studiava (all’epoca io frequentavo l’università, lei il mitico Beccaria…). Verso le 21 Enrico ed io uscivamo per andare in Sede, percorrendo a piedi un lungo vialone alberato pieno di giovanissime prostitute. Non mi era mai capitato prima, e forse non mi è più capitato in seguito, di incontrare una persona con cui fossi in perfetta intesa su tutto. Qualunque argomento affrontassimo non avevamo bisogno di parlarci: ci capivamo con un semplice cenno del viso. Ci siamo detti tutto ma proprio tutto, anche sugli argomenti più intimi, delicati o spinosi. Solo una cosa non gli ho mai detto, quella che ho confessato poc’anzi in queste pagine. Chissà se se ne sarà mai accorto? Sono certo di sì, ma non ne abbiamo mai parlato.
In Sede, quando cominciava a farsi tardi, tenevo d’occhio l’orologio per paura di perdere l’ultimo treno, ma c’era sempre qualcuno che per evitarmi il pezzo a piedi fino a piazzale Lotto ed il tratto in metrò, si offriva di riaccompagnarmi in macchina alla Bullona. Di notte l’aspetto della stazione era inquietante, spettrale, quasi da incubo: le poche persone che si vedevano sotto gli alberi, e che nel buio parevano fantasmi, avevano un’aria per niente raccomandabile e non di rado venivano a minacciarti o magari solo a romperti le scatole; allora, se non era l’ora del treno o se annunciavano un ritardo, preferivo uscire sul piazzale e rifugiarmi in un piccolo bar lì accanto per un ultimo caffè, nella speranza di vedere almeno una volta il proprietario, un cantautore che all’epoca mi piaceva moltissimo, ma che ho poi svalutato, scoprendo che le sue canzoni erano spesso rimasticature di pezzi stranieri non ancora usciti in Italia: un Donovan della mutua, un Bob Dylan dei poveri; ma all’epoca ero un po’ sprovveduto ed un certo modo di arpeggiare in re maggiore mi dava un brivido in fondo alla schiena; non parliamo poi di versi come:
…se sarà lì con te, fa’ che non pianga mai,
che non abbia mai freddo, che non soffra mai più.
E fa’ che i suoi capelli siano sempre più lunghi
perché solo così è più bella che mai…
che mi suscitavano un’emozione di cui oggi un po’ mi vergogno e che mi serve a tenere a freno il sorrisino di superiorità che mi nasce spontaneo ogni volta che vedo i miei figli commuoversi per Gigi D’Alessio:
…il telefono dà forza tu lo sai
ti fa dire ciò che non diresti mai…
oppure
…miele che poi diventa sale
se stiamo in riva al mare
e un’onda ci accarezzerà…
A proposito di canzoni, ho un altro ricordo di quegli anni legato alla stazione: una volta che ero andato a trovare Enrico, per passare la serata con lui e non per andare in Sede, mi sono trovato coinvolto negli scontri tra un gruppo di facinorosi che volevano entrare al Vigorelli senza biglietto per assistere al concerto dei Led Zeppelin e le forze dell’ordine: quella volta la Bullona, pur nella sua veste notturna, mi era parsa un rifugio sicuro e protettivo.
Enrico si è sposato nel 1975. E’ partito con la moglie per tre anni di servizio civile in Brasile, poi è andato a vivere lontano da qui, in quell’angolo di Lombardia puntato verso sud est che sa già di Emilia, e profuma di campagna grassa e fertile, di salame buono, cotechino e mostarda. Ci siamo scritti qualche volta, una domenica sono anche andato a trovarlo (era da poco diventato papà…) ma ormai la magia del nostro rapporto si era consunta. Da ventidue anni l’ho perso di vista; so dai giornali che è entrato in politica ed è consigliere comunale. Per ventidue anni non ho più avuto occasione di passare dalla Bullona.

Padri e figli

Quando ho rimesso piede alla Bullona nel settembre del 2002 ho avuto una sensazione sgradevolissima. Una cosa che mi era sempre piaciuta di questa stazione era il suo aspetto un po’ “naif”: guardando dal ponte sul lato di sinistra (binario 2) dove c’era il bar si dominava tutta la scena: le panchine di legno verde, gli alberi, la fontanella: bastava un colpo d’occhio per vedere se c’era il tuo amico o la tua compagna di classe. In questi ventidue anni, (ma mi verrebbe da scrivere “in mia assenza”), hanno costruito un’immensa pensilina metallica con piloni enormi sempre di metallo. Praticamente questa struttura occupa l’intera stazione che a chi la guarda adesso pare angusta, soffocante: non puoi vedere chi c’è e di chi non c’è, inoltre sembra sempre affollata anche quando ci sono quattro gatti, perché quasi tutto lo spazio è occupato dalle strutture in ferro. Anche le panchine di legno stile parco sono scomparse, sostituite da anonime panche in cemento. Un policromo tabellone luminoso annuncia i treni in arrivo, un altoparlante ripete l’annuncio. “Ai miei tempi” l’altoparlante c’era già, ma annunciava solo i ritardi. Quanto all’altro binario, quello per Milano Cadorna, il muro non è più stato riverniciato e si è coperto di graffiti colorati, rivendicazioni politiche, scritte oscene, umidità.
Ma quali eventi della vita mi hanno riportato dopo tanto tempo alla Bullona?
Nel mio lavoro di insegnante c’è un aspetto che trovo particolarmente sgradevole, difficile e doloroso: convocare i genitori di un alunno problematico.
E’ un momento penosissimo: due adulti, due persone con pari umanità e pari dignità si trovano l’una di fronte all’altra, ma il rapporto non è per niente paritario: uno è il gatto e l’altro è il topo, uno è armato, l’altro disarmato. Per trovare un rapporto altrettanto disagevole, impari e difficile riesco a pensare solo al rapporto tra un medico ed un paziente affetto da una patologia grave. L’insegnante si mordicchia le labbra, giocherella con la penna poi attacca con le lamentele: suo figlio fa questo, quest’altro e quest’altro ancora. Il padre o la madre queste cose le sa benissimo, ma sa anche di non poterci far niente e sa già che l’insegnante prima o poi se ne uscirà con la classica, risaputissima frase: lei che è il genitore gli faccia fare così, altrimenti…
Fortunato il gatto che non diventerà mai topo; anche il medico se si ammala può contare su amicizie, conoscenze e competenze che lo aiutano… ma mille volte infelice l’insegnante che si trova a “renverser les roles” per dirla con Brassens… a trovarsi genitore dall’altro lato della barricata.
Mio figlio ha scelto di andare in una scuola non lontana dal Liceo che io ho frequentato da ragazzo, quindi per qualche mese (poi si è ritirato) lui ha preso il treno a Cormano, lui è sceso alla Bullona, lui si è trovato a vivere compagni, esperienze, emozioni nuove; lui si è sentito dire la fatidica frase “domani vieni accompagnato dai tuoi genitori”. Ed io diverse volte ho salito e disceso le scale che quarant’anni prima mi avevano visto timido ed esitante ginnasiale. Ormai ho superato i cinquanta… da qualche anno sono ammalato… beh mi sembra che anche la Bullona sia invecchiata con me, non l’ho mica trovata tanto bene se devo essere sincero. Vederla com’è mi dà un senso di disagio, ma ricordarla com’era… è come ricordare la giovinezza.

Epilogo

Tre giorni fa ho venduto la macchina. Il compratore mi ha proposto di perfezionare l’acquisto presso un notaio di Buccinasco, poi mi ha proposto un notaio di Cusano Milanino, infine mi ha chiesto se mi andava bene un notaio di Milano: piazza Sei Febbraio n.4.
Ci sono andato in un pomeriggio di sole, e ne ho approfittato per fare una passeggiata a piedi. Sono passato davanti al mio vecchio Liceo, ho sfiorato la casa di Enrico (saranno ancora vivi i suoi genitori? e che ne sarà stato di sua sorella?) Poi, per tornare a casa, sono sceso alla Bullona.
Ho preso un ultimo caffè nel bar che mi accoglieva da ragazzo (muri scrostati, aria di smobilitazione, un nuovo gestore, ma soprattutto non c’è più il juke box), ho sceso la scala del binario 2 cercando di ricordarlo com’era… poi mi sono seduto ed ho aspettato il treno, giocando a pensare: domani c’è greco… sabato c’è la festa della Laura: quasi quasi le chiedo di invitare Enrico e sua sorella… devo assolutamente sentire l’ultimo pezzo dei Rokes… bisogna darsi da fare per organizzare una manifestazione a livello nazionale a Firenze… se invitassimo Follerau? o monsignor Camara? O tutti e due assieme?
Poi mi sono riscosso e sono salito in treno. Quando il convoglio si è messo in moto solo la paura di fare la figura dello scemo mi ha impedito di dire ad alta voce (ma confesso che l’ho sussurrato) “Ciao, Bullona”.

1 commento:

  1. sono un ragazzo "appena" ventenne e abito dalla mia nascita nella periferia di Milano...sono sempre stato un amante del passato, ho sempre provato delle sensazioni di estrema malinconia nel riscoprire posti che percorrevo o vedevo nella mia fanciullezza e che oggi non esistono più...la stazione di Milano Bullona è proprio una di queste: non credo di esserci mai sceso col treno, ma ci sono passato più di una volta (avevo 8-9 anni) e ricordo bene che il tutto fosse all'aperto con quelle grandi scalinate, quei muri e quella sensazione di un'antiquata ma straordinaria stazione che aveva passato tutti quegli anni di storia!
    Questa sera, chissà come mai, ho cercato dei vecchi documenti e foto della stazione, e per puro caso ho letto questo articolo autobiografico...che dire, il mio cuore ha pianto, sei riuscito a trasmettermi emozioni e sensazioni vissute in un'altra epoca, quando io ero ancora un piccolo semino

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