venerdì 14 ottobre 2011

Da Ti racconto una canzone IL VESTITO DI ROSSINI

IL VESTITO DI ROSSINI

 


Stamattina, quando il secondino ha detto che c’era una visita per me, avrei pensato a tutti, ma non a Gianni. Erano anni che non veniva a trovarmi il vecchio Gianni, operaio generico e mio compagno alla catena di montaggio. Mi ha detto che ieri sera è stato a casa di Giovanna che festeggiava il suo pensionamento (ha solo 49 anni, ma, poveretta, ha cominciato a lavorare a quattordici) e la licenza media del maggiore dei suoi tre figli; tra le altre cose ad un certo punto hanno parlato di me ed allora gli è venuto in mente di venirmi a trovare. Giovanna! Giovanna in pensione!! Giovanna mamma di tre bambini!!! Non l’ho mai detto a nessuno, perché è una cosa di cui mi sono sempre un po’ vergognato, ma se non avessi conosciuto Giovanna sicuramente la mia vita avrebbe avuto tutto un altro corso ed io oggi non sarei qui.
Sono entrato in fabbrica giovanissimo, ventidue-ventitré anni e la Giovanna, pur avendo pochi anni più di me era già una leader sindacale. La ricordo con l’eskimo, i jeans sdruciti, un’enorme sciarpa rossa di lana e un cappellino da sciatore in testa, della stessa stoffa e dello stesso colore; la voce roca per le troppe sigarette e l’immancabile megafono “Compagne e compagni domani sciopero generale di otto ore…” Io, anche se può sembrare paradossale pensando a ciò che mi è successo, non mi sono mai occupato di politica; mi ero iscritto al PCI cedendo alle insistenze di alcuni miei amici, ma i miei veri interessi spaziavano dal calcio alla scopa d’asse; dal bar alle corse in bicicletta lungo i viali della periferia: pochi soldi e pochissimi progetti per il futuro, ragazze manco a parlarne. Il lavoro massacrante non mi permetteva di avere nessuna di queste tre cose.
Dire che la Giovanna mi piaceva è fin riduttivo. Non era una gran bellezza, ma aveva un fascino incredibile, un’energia che nessun’altra donna possedeva. Lo confesso: mi ero preso una cotta tremenda, continuavo a pensare a lei, a casa, sul lavoro, la sera mentre giocavo a ramino con gli amici del bar, ma la vedevo lontana, irraggiungibile. Le poche volte che mi aveva rivolto la parola era stato per invitarmi ad un’assemblea, o a  firmare una petizione o a scioperare. Parlava sempre e soltanto di politica, di sindacato, di lotta, di rivoluzione, di marxismo-leninismo, schivava in maniera brusca ogni complimento, ogni battuta; se sentiva parlare di calcio, poi, si incazzava di brutto “sì bravi, pensate al Milan, così non vi accorgete che intanto il padrone vi rincoglionisce e vi sfrutta”. Qualcuno ci aveva provato con lei, ma si era ritirato in buon ordine con la coda tra le gambe.
Questo mio interesse finì per diventare un chiodo fisso e poi  un’ossessione vera e propria. Non ci dormivo più la notte; ad un certo punto arrivai a pensare (anche se oggi mi rendo conto di quanto fosse assurdo questo mio pensiero) che la Giovanna tenesse questo atteggiamento distaccato perché noi operai venivamo in fabbrica con abiti da lavoro, non eleganti come gli impiegati e i dirigenti. D’altra parte come devi vestirti quando ti svegli all’alba, sali su un treno pendolare sporco ed affollato, destinazione catena di montaggio di una grossa fabbrica di automobili della periferia? Io di vestito della festa ne avevo uno solo, ma lo tenevo per le grandi occasioni. Già, ma per un ragazzo come me, quali potevano esser le grandi occasioni?
Una mattina stavo comprando le sigarette quando mi si avvicinarono Pino, un anziano operaio specializzato che aveva fatto la Resistenza e Matteo, un sedicenne appena arrivato dal sud che Pino proteggeva come un figlio, agitati come non li avevo mai visti.
“Ehi, Rossini, hai saputo?”
“Cosa?” chiesi io con finto interesse.
“A Roma hanno rotto le trattative. Niente contratto. I padroni non ne vogliono sapere.”
“E quindi?”  chiesi io.
“E quindi sciopero generale. Ci lavorino loro nelle loro ditte di merda”.
Da lontano mi giunse la voce stentorea della Giovanna distorta dal megafono.
“Compagne e compagni. Alla rottura delle trattative voluta dal padronato rispondiamo con un grande momento di mobilitazione e di lotta. Domani sciopero generale di otto ore. E’ la nostra occasione, compagne e compagni. Facciamo pagare ai padroni il prezzo della crisi”.
La parola  “occasione”  mi rimbombò nella testa. Mi vennero in mente le parole di mia mamma quando mi aveva regalato quel bellissimo abito grigio che non indossavo mai: “Mi raccomando, non sciuparlo, tienilo per le grandi occasioni”.

La notte non riuscivo a prendere sonno.  Pensavo a quelli come Gianni, il mio vicino di posto alla catena di montaggio, a Pino, al giovanissimo Matteo che avevano degli ideali, che lottavano per le cose in cui credevano. Io quando c’era sciopero me ne stavo a letto a dormire, oppure andavo al bar. Ma a me ormai nella vita interessava solo Giovanna, nient’altro. Sapevo che era così, anche se stanotte non lo trovavo giusto. Alle cinque non avevo ancora preso sonno. Aprii l’armadio e vidi il mio abito grigio, nuovo, bellissimo. Lo indossai e provai a guardarmi allo specchio cercando di immedesimarmi in Giovanna. Immaginai che non ero io a guardare il vestito di Rossini, ma lei. Mi piacqui, mi sorrisi, mi dissi di sì. Decisi che la mattina sarei andato davanti alla fabbrica col vestito della festa.

La mattina alle sette e trenta il piazzale davanti alla ditta era strapieno di gente. C’erano gli operai di tutte le fabbriche della zona e un folto gruppo di studenti, riconoscibili in quanto più abbronzati e meno tesi rispetto agli operai. Su tutte le facce si potevano leggere non solo la determinazione di portare avanti la lotta, ma odio e furore. Stavolta i padroni l’avevano fatta grossa davvero.
La Giovanna passava instancabile da un gruppo all’altro, parlava coi ragazzi del picchetto,  organizzava il servizio d’ordine, entrava nel pulmino a mettere la cassetta da diffondere a tutto volume:

                                Noi siamo la classe operaia
                                che suda che lotta e lavora
                                 smettiam di soffrire ch’è l’ora
                                 smettiam di soffrire ch’è l’ora…

poi usciva dal pulmino e con la sua voce tonante cercava di competere col nastro diffuso dagli altoparlanti:

                                  …ladri del nostro sudore
                                  l’Italia farem comunista
                                  stronchiam la canaglia fascista
                                  sorgiamo, ch’è giunta la fin…  
                                  evviva il compagno Lenìn.


Io mi guardavo attorno frastornato, sperando che Giovanna notasse il mio vestito.

Le altre volta nei giorni di sciopero davanti alla fabbrica stazionava una camionetta della polizia con tre agenti mezzi addormentati che chiacchieravano tra loro, o guardavano le operaie che si fermavano a leggere i cartelli scritti a pennarello, ma stavolta la scena era diversa. Sessanta o settanta celerini, elmo con la visiera calata sugli occhi, scudo di plastica e manganello in mano, col mitra a tracolla, la pistola nella fondina e il tascapane da cui spuntavano i lacrimogeni.
Operai e poliziotti si fronteggiavano.
Slogan di lotta da una parte, un silenzio teso dall’altra.
Ad un tratto un gruppo di ragazzotti mai visti in precedenza e sbucati chissà da dove, con il passamontagna calato fin sugli occhi, cominciò a lanciare slogan diversi da quelli che erano echeggiati fino a quel momento.

                                    “Polizia repressione/ sei la serva del padrone!”
                                    “Polizia gran maiale/ fai la guardia al capitale”
                                     “PS SS”

“Bastardi! -disse Pino-. Quelli manco sanno cosa fossero le SS, lo vengano a dire a me che me le sono trovate davanti in montagna.
Dal gruppo dei ragazzotti cominciarono a partire sputi, monetine, poi sassi, poi qualche bullone.
“Compagni stiamo calmi, non creiamo e non accettiamo provocazioni” gridava la Giovanna.
Si levarono grida di “Venduta”, “bastarda”, “serva dei padroni” mentre non cessava la pioggia di oggetti contro gli agenti che si riparavano come potevano dietro gli scudi di plastica.
Ad un tratto Matteo lanciò un grido: “Minchia, ma quello è mio cugino Carmelo; che cazzo ci fa con gli autonomi…”
Prima che Pino potesse fermarlo Matteo si era staccato da noi ed era corso là dove partivano oggetti ed insulti contro i poliziotti.
“Matteo torna indietro!” urlava Pino.
Matteo si voltò verso di noi, fece segno di sì con la testa ed in quel momento uno degli agenti lo centrò con un colpo di pistola al petto.
Ebbe la forza di raggiungerci e cadde proprio ai miei piedi. Uno schizzo di sangue mi sporcò il vestito.
“Non sparate, porca troia!!!” gridava Pino, ma i poliziotti cominciarono a lanciare i lacrimogeni.
“Non facciamogli portar via Matteo” continuò Pino, altrimenti fanno sparire il cadavere e dicono che non ci sono state vittime”.
Poi dopo un attimo di silenzio, asciugandosi le lacrime e mettendosi il fazzoletto davanti alla bocca: “Non è possibile, cazzo, neanche i nazisti si comportavano a questo modo”.
Svelse con forza due cubetti di porfido dal pavé e me ne porse uno. Io lo presi, smarrito, ma non sapevo cosa farne.
In quel momento uno degli agenti, forse quello che aveva sparato a Matteo, si sentì male. Si strappò l’elmo e cominciò a boccheggiare, a causa dell’aria impregnata dell’odore acre dei lacrimogeni.
Pino gli lanciò un cubetto di porfido che lo colpì alla testa. L’agente cadde a terra in un lago di sangue.
In quel preciso istante il commissario portò la trombetta alla bocca. Un breve squillo e gli agenti caricarono.
“Scappa, Rossini” gridò Pino, e furono le ultime parole che sentii.
Quattro agenti mi piombarono addosso ed  una manganellata in testa mi fece perdere i sensi.
Quando rinvenni mi trovavo al commissariato di polizia in stato d’arresto.

Un brigadiere mi interrogò per più di due ore tenendomi in piedi senza mangiare né bere, poi entrò nella stanza il commissario.
Si avvicinò a me senza preamboli e mi mollò uno schiaffone in pieno viso.
“Come ti chiami?”
“Cazzo, ancora? L’ho già detto!”
Un altro schiaffone sull’altra guancia.
“Beh, me lo ripeti. Non ho capito”.
“Rossini”
“Rossini eh? Ma bene. Rosso già dal nome. Sei di Lotta Continua? O di Avanguardia Operaia? O sei uno di quei merdoni dell’emmeelle?”
“Sono iscritto al Partito Comunista, signor commissario”.
“Ti conviene confessare. Abbiamo i testimoni di quello che hai fatto. E poi il tuo vestito è sporco di sangue”.
In quel momento mi venne in mente una di quelle frasi che la Giovanna diceva alle assemblee e che a me davano i nervi (avrei tanto voluto sentirla parlare di moda, balere e vacanze come le altre operaie), ma che mi rimanevano in testa perché “suonavano bene” e che mi ripetevo con compiacimento nei momenti di solitudine.
“Signor commissario, il sangue che ho sul vestito è il sangue degli innocenti che protestavano perché finora hanno dovuto ingoiare solo ingiustizie”.
“Sei un assassino, Rossini. Oggi davanti alla fabbrica sono morte cinque persone, ed è  come se le avessi uccise tu”.
Ancora una volta mi venne in mente uno slogan della Giovanna.
“Signor commissario, gli assassini siete voi che siete al servizio degli aguzzini che ci fanno fare questa vita di merda”.
Ero stupito io stesso delle mie parole.

Il sindacato prese le distanze dal mio “gesto inqualificabile totalmente estraneo alla storia ed alle tradizioni del movimento operaio”; il PCI mi sospese dal partito. Mia madre non aveva i soldi per pagarmi l’avvocato e me ne venne assegnato uno d’ufficio che  sonnecchiò per tutta la durata del processo.
Il pubblico ministero tirò fuori un sacco di aggravanti e la corte gli diede ragione.
Mi condannarono a vent’anni di carcere. Vent’anni per una sassata ad un poliziotto.
Io ebbi un bel dire che il blocchetto di porfido lo avevo ancora in mano quando mi arrestarono, e che quindi non potevo averlo tirato all’agente, ma mi fregò il fatto che dal selciato mancavano due cubetti.
Inutile dire che Pino non fu mai indagato né si presentò a testimoniare.

In tutti questi anni mi sono posto un sacco di domande e ho capito tante cose.
Solo una domanda rimarrà per me sempre senza risposta: chissà se quel giorno Giovanna ha visto il mio vestito da festa?


Nota: Quando ho scritto questo racconto non sapevo che un cittadino comune (che non sia un deputato o un magistrato) può fare visita ad un carcerato solo su richiesta scritta di quest’ultimo, quindi la visita a sorpresa che abbiamo visto tante volte nel cinema francese o americano in Italia non è possibile; ma la storia è nata così, quindi non penso di modificare l’incipit del racconto.


Il vestito di Rossini
(Paolo Pietrangeli)

«Come ti chiami?» «Ve l'ho già detto»
«Ripeti ancora non ho capito»
«Sono Rossini iscritto al Partito
sor commissario mi conoscete».
«Confessa allora tu l'hai colpito
non mi costringere a farti del male
tu sai benissimo conosco dei mezzi
che anche le tombe fanno parlare».
«Sor commissario i vostri mezzi
sono tre ore che li sopporto
e se volete vedermi morto
continuate pure così».
Aveva solo un vestito da festa
se lo metteva alle grandi occasioni
a lui gli dissero «Domani ai padroni
gliela faremo faremo pagar».
E l'indomani quand'era già l'alba
aprì l'armadio e il vestito si mise
guardò allo specchio la faccia sorrise
guardò allo specchio e si disse di sì.
Andò alla fabbrica ed erano in mille
tutti gridavano l'odio e il furore
forse Giovanna il vestito vedeva
in quella folla fra tanto colore.
«Ti han visto tutti tu sei finito
c'è anche del sangue sul tuo vestito
quei cinque uomini che sono morti
sulla coscienza li hai anche tu».
«Sor commissario voi lo sapete
quali che sono i veri assassini
quelli al servizio degli aguzzini
che questa vita ci fanno far.
E questo sangue che ho sul vestito
è solo sangue degli innocenti
che protestavano perché tra i denti
solo ingiustizia hanno ingoiato».
Aveva solo un vestito da festa
se lo metteva alle grandi occasioni
a lui gli dissero «Domani ai padroni
gliela faremo faremo pagar».
Ma l'hanno visto con un sasso in mano
che difendeva un ragazzo già morto
ma quel che conta è che a uno di loro
un sampietrino la testa sfasciò.
E ha scontato vent'anni in prigione
perché un gendarme s'è rotto la testa
ormai Giovanna ha tre figli è in pensione
chissà se ha visto il vestito da festa.

Questa canzone è stata incisa da Paolo Pietrangeli  


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