venerdì 24 febbraio 2012

Da Ti racconto una canzone INCONTRO

INCONTRO

Un rammarico che mi porto dietro da un sacco di tempo è quello di aver incontrato Anna proprio a quell’ora, le cinque del pomeriggio, e in quel luogo, la stazione di Modena in un giorno d’autunno del 1978. Avevo fretta, ma la fretta è cattiva consigliera, d’altra parte assolutamente non potevo perdere quel treno. Nell’emozione dell’incontro non le ho chiesto indirizzo e numero di telefono… ed ora magari ci rivedremo, se mai ci rivedremo, tra altri dieci anni. Ero sceso per cambiare treno a Modena con la voglia pazza, irrefrenabile di un caffè. Il treno che dovevo prendere, poi non ce ne sarebbero più stati fino al mattino, partiva dieci minuti dopo… ma dissi a me stesso che non sarei riuscito a proseguire senza un caffè caldo ristretto e cremoso, non quello schifo che vendono, quando lo vendono, sui treni locali; scesi di corsa le scale, entrai nel bar, buttai giù un espresso, rifeci le scale ancora più di corsa… e in quel momento la vidi. Dieci anni erano passati eppure mi sembrò la stessa. Ma era l’impressione di un momento.
“Anna?”
“Francesco!”
Ci abbracciammo e restammo per un attimo in  silenzio. Una dolce tristezza si era impadronita di noi. Il sole tramontava, all’orizzonte la città sembrava di fuoco, quella città che era stata nostra e in cui da dieci anni, dopo la sua partenza e la fine della nostra breve storia non mettevo piede. Ricordai come un tempo la conoscevo alla perfezione, come l’avevo amata casa per casa, chiesa per chiesa, osteria per osteria, ed ora mi sembrava una città straniera, fredda ed ostile. Per un attimo mi parve di rivivere i momenti del nostro amore durato una stagione, finito così in fretta e senza un motivo preciso. Guardai il muro che fissavo sempre al momento dell’ultimo bacio, cercando le parole che mi erano rimaste impresse nella mente Hasta siempre comandante Che Guevara”, ma sul muro sgretolato e un po’ sconnesso c’era scritto “Moser sei il migliore”.
“Dieci anni che non ci vediamo, ci pensi, Francesco?”
“Già, che bei tempi”
“Io sono andata in America, è vero, ma anche dopo tu non ti sei fatto più vedere”.
“No, Anna, ti ho scritto, ma tua madre ha detto che eri ancora via”.
“Mia madre…” Anna abbassò gli occhi.
Già, sua madre. Ero stato a cena una volta sola a casa di Anna. Marmi, parquet, specchi, lampadari di cristallo, mobili antichi strapieni di  oggetti in vetro di Murano, la servetta di colore con il grembiule nero e la crestina bianca… Ero a disagio con il mio completo blu e la cravatta in tinta unita, io che vestivo sempre in eskimo e maglione… non sapevo se servirle il vino o aspettare che se lo versasse da sola… non sapevo come si mangiavano le ostriche e neppure l’aragosta (che peraltro non mi piacevano, meglio, molto meglio una bella fetta di zampone  da mangiare tirando via la pelle con le mani e portandosela alla bocca per poi succhiarsi le dita)… non sapevo cosa dire e finimmo per parlare come due vecchi… come i genitori di Anna che mi scrutavano severi scotendo la testa. Che sollievo quando uscimmo a passeggiare… avevo davvero bisogno di una boccata d’aria… Hemingway… Pavese… l’Inter… i compagni di scuola… l’America tanto sognata e mai vista… che ci illudevamo di trovare in questa città che all’improvviso mi parve tristissima. Un freddo bestiale, Mulinelli di cartacce portate dal vento, i clacson delle auto sul piazzale. Luci fredde e tristi come quelle di un presepe il giorno dell’Epifania, ma quelle luci illuminavano il viso di Anna… sembrava che qualcuno le avesse accese per noi.
“Cosa mi racconti, Anna, ti sei sposata?”
“Ho sposato Alberto, ma…”
“No! Alberto no –pensai con amarezza- brutto, grasso, ricco, antipatico, pieno di sé, fascista di merda, sempre a buttarci in faccia le sue ditte, le sue macchine le sue donne…”
“Ma…?” chiesi con un filo di voce.
“Ma è durata sei mesi… ci siamo sposati a fine giugno e la mattina di Natale si è tirato un colpo di pistola. Diceva che non mi reggeva, che ero una stronzetta, tutto perché non gli permettevo di portare in casa le sue troiette e una volta ho telefonato a suo padre. Non ci siamo mai amati, Fra, ho seguito i consigli dei miei; dicevano che era un buon partito, che non avrei fatto la fame, che… ”
Facevo fatica a sentire le sue parole, sembrava che il buio le inghiottisse.
Quante volte avevo vissuto situazioni del genere nei film che piacevano ad Anna e che io detestavo? Nei romanzi che leggevo io no, una storia del genere sarebbe potuta comparire solo in un romanzo scritto male.
“Mi spiace Anna”
“Grazie Francesco, ma non importa, tu piuttosto?”
“Io… sempre lo stesso. Scuola, chitarra, partito… cazzo il treno, scusami Anna, se perdo questo sono fottuto”.
La strinsi forte in un abbraccio… senza parlare.
In treno ero solo nello scompartimento. Il vagone rullava come una barca. Mi immersi nei miei pensieri. Anna… la mia giovinezza… il nostro amore… la vita è come un treno, si va, si va, ma non conosciamo la destinazione…  portiamo con noi come bagagli i sogni, le illusioni di un momento… il treno corre nella notte ed ogni tanto ci pare di intravedere una luce nel buio, ma quando la mettiamo a fuoco è già lontana. Ciò che è stato reale si fa simbolo e rimane dentro noi. Siamo fragili e mortali, ma qualcosa sopravvive.




Incontro
(Francesco Guccini)
E correndo mi incontrò lungo le scale, quasi nulla mi sembrò cambiato in lei,
la tristezza poi ci avvolse come miele per il tempo scivolato su noi due.
Il sole che calava già rosseggiava la città
già nostra e ora straniera e incredibile e fredda:
come un istante "deja vu", ombra della gioventù, ci circondava la nebbia...

Auto ferme ci guardavano in silenzio, vecchi muri proponevan nuovi eroi,
dieci anni da narrare l'uno all' altro, ma le frasi rimanevan dentro in noi:
"cosa fai ora? Ti ricordi? Eran belli i nostri tempi,
ti ho scritto è un anno, mi han detto che eri ancor via".
E poi la cena a casa sua, la mia nuova cortesia, stoviglie color nostalgia...

E le frasi, quasi fossimo due vecchi, rincorrevan solo il tempo dietro a noi,
per la prima volta vidi quegli specchi, capii i quadri, i soprammobili ed i suoi.
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway,
il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste:
la mia America e la sua diventate nella via la nostra città tanto triste...

Carte e vento volan via nella stazione, freddo e luci accesi forse per noi lì
ed infine, in breve, la sua situazione uguale quasi a tanti nostri films:
come in un libro scritto male, lui s' era ucciso per Natale,
ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio:
povera amica che narravi dieci anni in poche frasi ed io i miei in un solo saluto...

E pensavo dondolato dal vagone "cara amica il tempo prende il tempo dà...
noi corriamo sempre in una direzione, ma qual sia e che senso abbia chi lo sa...
restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento,
le luci nel buio di case intraviste da un treno:
siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno..."

Questa canzone è stata incisa da Francesco Guccini, dai Nomadi, da Roberto Vecchioni  e da Enrico Ruggeri


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