venerdì 11 novembre 2011

Da "Ti racconto una canzone" VALSINHA


VALSINHA

Tutto è cominciato a causa di una canzone, ma non di quelle belle, impegnate che piacciono a me, no, una canzone becera, commerciale, banalissima ; una canzone di trent’anni fa.  Stamattina in ufficio si è rotta una tapparella e sono venuti due operai a sistemarla. Uno dei due, mentre lavorava ha intonato quella vecchia canzone ed io sul momento ho provato un inspiegabile senso di disagio, poi ho cominciato a pensare e mi sono quasi sentito male.
Trent’anni fa quella brutta canzone era di moda, la sentivi alla radio, alla televisione, la cantava la gente per la strada. Io mi ero sposato da pochi mesi e tutte le sere, tornando a casa dal lavoro, quando svoltavo con la macchina nel vialone alberato che porta a casa mia la intonavo e la cantavo a voce alta. Forse una sera l’avrò sentita alla radio, nel negozio in cui mi ero fermato a prendere un regalo per mia moglie, non so, sta di fatto che l’avevo cantata una volta e da allora era diventato quasi un gioco per me: ogni sera come ho detto mentre imboccavo il vialone la cantavo. Poi portavo la macchina in garage ed entravo in casa. Tutte le sere mia moglie mi correva incontro, mi abbracciava e mi baciava. Ci chiamavamo coi nomignoli più affettuosi (e magari un tantino stupidi…), ci raccontavamo la nostra giornata, se uno dei due aveva avuto un problema si sentiva consolato e dimenticava qualunque dispiacere. Qualche volta lei mi prendeva per mano e mi portava sul grande letto matrimoniale e facevamo subito l’amore una, due, tre volte, magari per scoprire che non avevamo fatto la spesa, ma non era un problema: uscivamo ed andavamo in pizzeria, oppure mangiavamo due gallette secche avanzate dalla colazione, ridendo e scherzando, giocando ad essere i sopravvissuti sull’isola deserta. Poi un po’ di televisione, ma difficilmente capivamo qualcosa del programma che stavamo guardando, perché chi dei due era meno interessato allo spettacolo cominciava a stuzzicare l’altro con bacetti sul collo o con carezze audaci… e lo spettacolo finiva lì, o meglio ne cominciava uno più interessante e privato. E poi progetti… sogni… discorsi sulle vacanze e sul futuro… le visite degli amici che ci invidiavano…

Smisi di lavorare e mi presi la testa tra le mani. Come e quando era finita questa stagione favolosa del nostro matrimonio? Non riuscivo a trovare in questi trent’anni un momento o un avvenimento che avessero creato un punto di rottura. Alcuni miei amici avevano avuto una disgrazia o un tracollo finanziario o una malattia che aveva cambiato le cose, noi no:  il nostro rapporto si era modificato poco alla volta, silenziosamente, giorno dopo giorno, senza che ce ne accorgessimo, come certe malattie asintomatiche e silenziose che scopri solo quando è troppo tardi. Io sono ancora io e lei è ancora lei, la casa, i mobili sono sempre gli stessi, solo la macchina è cambiata, ne abbiamo cambiate quattro nel corso degli anni… io lavoro sempre nello stesso ufficio: tutte le sere mi metto al volante, svolto nel vialone alberato e dopo aver messo la macchina in garage salgo in casa, già, ma come?…
Entro e butto lì un ciao che riceve una risposta altrettanto stentata. Mi siedo sul divano e comincio a sfogarmi: “stamattina c’era un traffico infame… non si viaggia più in questa città di merda… il capufficio comincia ad avere delle pretese assurde, vuol farmi lavorare anche il sabato e non mi paga gli straordinari… (e lei che pensa “certe richieste un capufficio può farle solo  a un coglione come te”) quel deficiente di Bonetti ha avuto l’aumento, solo perché lecca il culo ai capi, io che mi sbatto come una bestia non vedo un aumento dall’84… adesso poi hanno assunto dei consulenti che non solo non sanno fare il lavoro, ma rovinano il mio… mi costringono a seguire tutte le novità che arrivano dall’America, poi il lavoro non va bene e i capi se la prendono con me… e sai cosa prende un consulente? Seicento euro al mese più di me, capisci? Seicento euro per mandare a puttane il mio lavoro e farmi venire il mal di fegato.” Mia moglie mi ascolta, ma solo per cogliere il momento preciso in cui mi fermo a prendere fiato per poter attaccare lei: “stamattina è arrivata la bolletta del telefono: quattrocento euro (“saranno le telefonate che fai a quelle stronze delle tue amiche” penso tra me e me), qui non si ragiona in questa casa… e, a proposito di gente che non ragiona, se non ti decidi a sistemare quello scaffale prima o poi ci arriva sulla testa… a proposito, tuo figlio (già la parola “tuo” mi fa incazzare: si vede che l’ho fatto con la vicina di casa…) ha risposto male al Preside, sabato siamo convocati…” Certe cose che un tempo ci facevano ridere ora diventano drammi: se lei dimentica di comprare il pane a me vien voglia di buttare per aria la casa;  se io rompo un bicchiere vengo messo sotto processo…

Morale della favola: oggi in ufficio non ho combinato niente tutto il giorno. Alle quattro ho detto al capo che mi sentivo male e sono venuto a casa.
Al momento di svoltare nel viale ho intonato a voce altissima la canzone che cantavo trent’anni prima e sono entrato in casa cercando di sorridere.
“Ciao amore” le ho detto e le ho dato un lungo bacio appassionato. Lei mi ha guardato strana, indecisa se compiacersi o prendersela, ma non ha detto niente.
“Preparati che oggi usciamo”. Ho pronunciato queste parole con tenerezza, ma anche con amarezza: ci volevano un operaio mai visto prima e una vecchia canzone a raddrizzare quella pianta storta che è diventato il nostro matrimonio?
Lei non ha detto niente. E’ andata in camera ed ha cominciato a rovistare nei cassetti. Io la guardavo un po’ preoccupato, poi ho visto che ha tirato fuori una vecchia camicetta… il mio primo regalo!!! La camicetta che indossava quel pomeriggio in collina, la prima volta che abbiamo fatto l’amore… poi è andata in bagno a lavarsi e a truccarsi e quando è uscita… non l’ho mai vista così bella, neanche il giorno del matrimonio; o  forse sì, una volta, la prima volta che siamo usciti assieme.
L’ho presa per la mano (da quanti anni non ci tenevamo la mano nella mano? Avevamo paura di sembrare ridicoli?) e siamo scesi alla piazza. Cantavamo a squarciagola e la gente si fermava a guardarci. Sulla piazza, sempre cantando abbiamo accennato un passo di danza. Una vecchietta ci ha detto “ragazzi, c’è buio, ma gente come voi illumina la notte!” Avrei voluto ringraziarla per il “ragazzi”, ma doveva esserci ben buio per non vedere le nostre rughe ed i nostri capelli bianchi. Abbiamo continuato a baciarci per tutta la sera, poi siamo andati a mangiare nel ristorante dove andavamo sempre il primo anno. E’ cambiato tutto, gestione, arredamento, camerieri, menù, ma noi non ce ne siamo accorti.
Avremmo voluto appartarci e far l’amore come due ragazzini, ma non ne abbiamo avuto il coraggio.
Però siamo andati a ballare e quando siamo tornati a casa era quasi l’alba.
Mio figlio era già alzato e lavorava al computer. Da quando deve fare quella dannata tesina non si dà pace, è sempre su Internet a cercare materiale.
Non dico che fossimo ubriachi, ma un po’ su di giri sì ed avevamo una gran fame. Siamo andati in cucina e ci siamo fatti una spaghettata: aglio, olio e peperoncino.
Lui ci ha guardati ed ha sorriso.
“Bella papi, batti un cinque!”
Ha sorriso di nuovo ed ha scosso la testa.
“E poi dicono di me…”


Valsinha
(Chico Barque de Hollanda)
Um dia ele chegou tão diferente do seu jeito de sempre chegar
Olhou-a dum jeito muito mais quente do que sempre costumava olhar
E não maldisse a vida tanto quanto era seu jeito de sempre falar
E nem deixou-a só num canto, pra seu grande espanto convidou-a pra rodar Então ela se fez bonita com há muito tempo não queria ousar
Com seu vestido decotado cheirando a guardado de tanto esperar
Depois o dois deram-se os braços com há muito tempo não se usava dar
E cheios de ternura e graça foram para a praça e começaram a se abraçar E ali dançaram tanta dança que a vizinhanca toda despertou
E foi tanta felicidade que toda cidade enfim se iluminou
E foram tantos beijos loucos
Tantos gritos roucos como não se ouvia mais
Que o mundo compreendeue o dia amanheceu em paz.



 
Valsinha
(traduzione di Sergio Bardotti)


Quel giorno a casa lui tornò più presto come non faceva quasi più
 e la guardò in un modo ben diverso come non faceva quasi più.
E non parlò dei soldi e dell’aumento, unico argomento dei discorsi suoi.
Con una strana tenerezza e un poco di amarezza disse “Andiamo fuori vuoi?”.
E allora lei si fece bella come il giorno che di lui si innamorò.
Cercò nel fondo di un cassetto quella camicetta che le regalò.
E lui la tenne per la mano come la teneva tanto tempo fa.
Come un ragazzo e una ragazza scesero alla piazza e incominciarono a ballar.
E al suono della loro danza il vicinato addormentato si affacciò
e scese nella piazza scura e molta gente giura che s’illuminò.
E furono baci rubati e gridi soffocati che nessuno soffocò.
Che il mondo fece suoi, in pace l’alba poi spuntò.

Questa canzone è stata incisa in portoghese da Chico Barque de Hollanda e in italiano da Mia Martini.



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