venerdì 4 novembre 2011

Da Ti racconto una canzone LA GITA


LA GITA

E’ una vita che mi diverto a prendere in giro quelli che programmano a tavolino una conquista: domenica la incontro… le dico così… lei dice cosà… e allora io.. e allora lei… ecc. ecc. eppure una volta ci sono cascato anch’io in questa situazione che chissà perché fa così tanto ridere quando succede agli altri. Ma come nel feuilleton ottocentesco dobbiamo prima fare un passo indietro.  Era la mia ultima estate da studente ed avevo deciso di dedicarla per intero al movimento giovanile di cui ero responsabile regionale… Mi offrii di dirigere non uno, ma tre campi di lavoro: uno a Sarnico, sul confine tra le province di Bergamo e Brescia, uno a Palazzolo sull’Oglio (sempre in zona) ed uno a Pieve di Stadera, sull’Appennino pavese ad un passo dall’Emilia. Solo che al primo di questi tre campi di lavoro mi ero preso una cotta fulminea per una diciassettenne rossa, lentigginosa, timidissima che abitava in un paesino a casa di Dio, dal nome impronunciabile come uno scioglilingua, dalle parti di Lecco.  All’epoca ero abituato che quando mi prendevo una cotta e la ragazza lo capiva, arrivava immediatamente il due di picche, lo incassavo rassegnato e buonanotte. Questa tipa invece tirò fuori tutto il ricco armamentario ben noto alle ragazze quando vogliono dire di no: “la tua corte mi lusinga, ma tu meriti ben altro… capiti nel momento sbagliato… ti ammiro troppo… siamo così diversi…tu abiti in città, io in un paesino di montagna (scoprii molti anni dopo che questo suo paese era in bassa collina, quasi in pianura…) ma una minima porta aperta la lasciava sempre. Per tutto settembre le fissai degli appuntamenti che lei accettava. Ci vedevamo a Lecco alla stazione. Prendevamo un caffè poi io le prendevo la mano e cominciavamo a camminare costeggiando il lago, fino a Malgrate, lì facevamo dietro front e tornavamo alla stazione di Lecco. Io parlavo, parlavo, lei rispondeva sempre in maniera evasiva, poi un casto bacetto sulla guancia e arrivederci al prossimo appuntamento. Una sera, mentre tornavo a casa mi venne in mente che forse, ricreando il clima favoloso del campo di lavoro, sarei riuscito a far crollare quel muro di diffidenza che ogni volta mi sembrava sul punto di sgretolarsi ed ogni volta rimaneva in piedi. Proposi a tutti i reduci dal campo una gita per ritrovarci una domenica a Sarnico e rievocare insieme ai ragazzi del posto che  ci avevano fornito il supporto logistico la bella avventura estiva. Tutti accettarono con entusiasmo, anche lei. Io dissi a me stesso “da domenica non ci saranno più appuntamenti interlocutori alla stazione di Lecco. Io parlerò chiaro, ma  le chiederò di mettere le carte in tavola una volta per tutte: O sì o no.  Ma dentro di me ero certo che sarebbe stato un sì. Lo sentivo.
La sera prima ero emozionato come una collegiale; non riuscivo a prendere sonno e la cosa mi irritava al punto che mi sarei preso a schiaffi. “E che sarà mai -dicevo a me stesso- vai a una gita, la vedi, le dici di decidersi. Cosa sono questi atteggiamenti da ragazzina romantica… proprio tu che hai sempre sghignazzato di queste cose”. Mi addormentai tardissimo e la mattina non sentii la sveglia.
Mi riscosse dal sonno una scampanellata al citofono che svegliò probabilmente non solo me ma tutto lo stabile.
“Siamo noi” disse Marietto, l’altro responsabile del campo che passava a prendermi in macchina.
“Siamo?” mi chiesi, mentre tirando una sfilza di madonne mi precipitavo in bagno- “perché usa il plurale?” Mi lavai di premura ed ovviamente mi tagliai tre volte nel farmi la barba. Mia mamma, che pure era abituata al mio linguaggio non certo da educanda, senza alzarsi dal letto mi urlò di smetterla  e mi chiese se non mi vergognavo a dire tutte quelle parolacce.
Quando scesi in strada capii perché Marietto aveva detto “siamo”. Con lui c’era uno dei miei più cari amici, Ermanno che aveva portato con sé la sorella. Gran bella ragazza la Elena: castana, occhi verdi, un’aria acerba da adolescente nonostante i suoi vent’anni. Il tipo di ragazza che in un altro momento avrebbe probabilmente suscitato il mio interesse, ma… decisamente non capitava nel momento giusto. L’avevo già notata un paio di volte durante l’estate (avevamo fatto una breve vacanza al mare assieme ed una volta ero stato a mangiare a casa sua), ma nella prima occasione io ero troppo assorbito dalle mie paturnie sentimentali e troppo indaffarato a mettere pace tra Ermanno e la sua ragazza; nella seconda lei era troppo concentrata a preparare il pesce prima, a difenderlo poi dall’assalto di una decina di gatti. Durante la cena infine ero stato preso in ostaggio dal suo fratellino dodicenne che voleva sapere mille cose sui papi del Duecento (meno male che avevo appena dato l’esame di storia medievale…), quindi i nostri rapporti erano rimasti estremamente formali.

Il viaggio mi parve interminabile, non avevo preso il caffè, cosa per me inconcepibile, avevo sonno, ero agitatissimo, e sia Ermanno sia Marietto non perdevano occasione per punzecchiarmi.
“Allora oggi assistiamo alla grande conquista eh?”  diceva Marietto.
“Sì, oggi vediamo il Silvano in versione Casanova” rincarava Ermanno.
Grazie a Dio almeno Elena, che, come ebbi modo di appurare nel corso degli anni, soffriva di mal d’auto, rimaneva in silenzio. Non saprei dire cosa io abbia risposto, ma credo nulla di intelligente.

Quando arrivammo a Sarnico fu tutto un salutarsi, abbracciarsi, baciarsi; un campo di lavoro, come uno spettacolo teatrale, crea un affiatamento, un’amicizia, un legame fantastico. Anche la ragazzina dai capelli rossi venne verso di me, rigida come se avesse ingoiato una scopa,  evitò con destrezza il mio abbraccio, mi porse la mano con un gesto da avvocato cinquantenne, poi disse “Ciao Silvano” e via a baciare ed abbracciare tutti gli altri.
Rimasi un attimo disorientato, ma non ebbi tempo di elaborare pensieri di nessun tipo, perché un gigante del posto mi sollevò da terra e mi depositò di peso su una sedia.
“Eh no caro Silvano, basta sbaciucchiare ragazzine. E’ da luglio che vogliamo sentire le tue canzoni”.
“Sì, si le canzoni!” gridarono i campisti sedendosi in terra a cerchio attorno alla mia sedia.

                               “In una strada un uomo solo
                                  cammina triste senza una meta…”

con la coda dell’occhio mi accorsi che lì attorno a me c’ erano proprio tutti. Solo la ragazzina dai capelli rossi mi voltava le spalle e guardava il lago con aria annoiata.

I ragazzi di Sarnico ci avevano preparato un pranzo eccellente. A me capitava spesso da ragazzo (oddio mi capita ancora adesso, anche se meno di frequente…) di volermi sedere a tavola vicino a una certa persona, ma di non sapere come fare. Forse conoscendo questo tipo di problema il mio amico Franco, quando facciamo la rimpatriata tra compagni di liceo, assegna i posti col classico sistema dei bigliettini e devo dire che di solito mi legge nel pensiero (o forse, dopo quarantun anni mi conosce fin troppo bene…) Ma in mancanza di bigliettini bisogna studiare un’altra strategia; allora si finge indifferenza, si prende l’aperitivo o uno stuzzichino cercando di non perdere di vista la persona in questione, poi senza dare troppo nell’occhio, quando lei accenna a sedersi ci si butta e, come per caso, ci si siede accanto a lei. Inutile dire che molte volte il gioco non riesce e uno rischia di finire vicino a gente che neppure conosce o peggio ancora, a gente che non gradisce. Beh quella volta devo dire che Marietto ed Ermanno fecero un vero e proprio “gioco di squadra” ed io mi ritrovai seduto accanto alla ragazzina dai capelli rossi.  Credo di aver cercato di attaccare discorso su almeno mille argomenti, dai più futili ai più raffinati, ma lei buttava lì un “sì” o un “no” o un “ma va!”o un “ah sì?” e poi riprendeva a mangiare in silenzio. Di fronte a me Ermanno e Marietto mi osservavano con aria beffarda, curiosi di vedere come sarebbe andata a finire. Se non mi alzai da tavola con un travaso di bile lo devo alla Elena che si dimostrò una conversatrice acuta e spiritosa, davvero una persona gradevolissima, oltre che una gran bella ragazza, ma come dice un verso di Edgar Lee Masters: “i nostri cuori rispondono a stelle che non vogliono saperne di noi”. Mentre prendevamo il caffè Marietto ebbe la spudoratezza di chiedermi se tutto procedeva secondo i miei piani. “Mi sa che c’è poco da fare” gli dissi e non volli accorgermi del ghigno divertito e sadico che gli balenò negli occhi.

Cominciavo ad averne piene le scatole di quella giornata. Mi ero pentito di aver organizzato questa gita, anzi mi stramaledicevo per questo e stavo pensando a qualche pretesto per potermene stare un po’ in pace, ma né i campisti né i ragazzi di Sarnico erano di questo parere.
“Ragazzi, vi ricordate di quando andavamo la sera sul lago a fare gli scemi?… che risate ci facevamo, a vedere la faccia della gente. Silvano, come faceva quella canzone che cantavamo la sera?”
Senza neanche accorgermi mi trovai sul lungolago seguito da un codazzo di gente allegra, festante, piena di voglia di divertirsi.
La ragazzina dai capelli rossi mi ignorava ostentatamente.
Dài Silvano attacca quella degli angioletti”
“No, scusate non ne ho voglia”
“Pota, Silvano, non farti pregare, la intonavi sempre tu, noi non ce la ricordiamo”
“Ecco: sto male, ma ho un fama di allegrone da difendere –pensai-. Vediamo se riesco a fare il pirla anche controvoglia” imposi a me stesso.

                          Cantiamo tutti in  coro la canzone degli angioletti
                           che scesero dal cielo per fare la pipì¸
                           han visto Sophia Loren, la Lollo e la BB
                           e si dimenticarono di fare la pipì…
                            popom popom   popom   popom popom popom…
                            popom popom   popom   popom popom popom…

ma il giochetto che tanto mi divertiva nelle sere d’estate stavolta mi sembrava una vaccata tremenda. 
Ad un certo punto mi accorsi che ero sul punto di esplodere e non mi sembrava il caso. Erano pur sempre degli amici ed io rappresentavo il movimento. Mollai tutti ed andai a sedermi su una panchina. Guardai l’orologio e fui sul punto di bestemmiare. “Ma oggi non viene mai sera ???”
Elena si sedette vicino a me e mi prese la mano con naturalezza.
“Su, non fare così, non mi sembra il caso. Vieni che raggiungiamo gli altri. Ti capisco sai? Sono cose che succedono.”
Camminammo in silenzio fino all’ora del ritorno.

Di nuovo un’orgia di saluti, baci, abbracci… solo un piccolo gruppetto di persone tra cui la ragazzina dai capelli rossi si era già avviato verso la stazione.
Le oltrepassammo in macchina.
“Marietto, per favore, fermati, voglio salutarla per l’ultima volta” dissi.
Marietto sorrise e frenò.
“Mandala a cagare” mi suggerì Ermanno.
Scesi dall’auto e come la mattina mi beccai un saluto secco, freddo, formale.
Ermanno scese dalla macchina “Andiamo, va’ che è meglio. Oh ragazzi, mi fate stare davanti?”
Elena (l’ultimo riflesso del sole sul lago batteva sui suoi occhi ed io mi accorsi in quel momento di quanto fosse  affascinante coi suoi capelli castani e gli occhi verdi) prese posto dietro ed io sedetti vicino a lei.
“Senti –le dissi- io per il ponte di S.Ambrogio vado quattro giorni sull’Appennino coi miei amici. Vuoi venire anche tu?”
“Credo di sì, non so, devo vedere.” rispose sorridendo, ma in quel momento per me era come se avesse pagato la prenotazione.
Ermanno mi strizzò l’occhio. “Grazie per il posto, Silvano. E poi si sta bene anche dietro, vedrai”.
“Giudizio sulla gita?” disse Marietto mettendo in moto.
“Splendida!!!” risposi e scoppiammo a ridere tutti e quattro.





La gita

(Silvano Maino)


Hai riso per anni di quelle persone

che aspettano un giorno con grande emozione

e puntano tutte le carte che hanno
sulle poche ore in cui la vedranno.
Finché sono gli altri ci ridi e ci scherzi,
adesso, che bello, sei tu che l’aspetti
e sei lì che conti i minuti e già sai
che oggi è domenica… e tu la vedrai.
Ti svegli in ritardo e ciò non ti garba,
ti tagli tre volte nel farti la barba,
gli amici han suonato, è tempo di andare,
un’ora di macchina senza parlare;
hai l’aria un po’ strana e ancora assonnata,
 gli amici ti lanciano qualche frecciata,
rispondi distratto qualcosa di vago:
vorresti già essere in quel posto sul lago.
Arrivi e la vedi, per niente eccitata,
ti guarda e sorride con aria staccata,
poi resta in disparte a parlare con gli altri,
 ti senti osservato da tutti gli sguardi.
Un sacco di gente ti viene a cercare,
è tanto che han voglia di farti suonare;
ti siedi e cominci la prima canzone:
ne manca una sola tra tante persone.
All’ora di pranzo le siedi vicino,
attacchi bottone, lei parla pochino
c’è poco da far ormai l’hai capito,
qualcuno ti osserva un po’ divertito.
E poi tutti al lago in mezzo alla folla
a fare casino anche se non ne hai voglia
e lei con un’aria del tutto innocente
ti snobba in maniera abbastanza evidente.
Ti metti a sedere con la faccia nera,
ti sembra che oggi non venga mai sera;
gli amici stavolta son proprio carini,
ti tengon per mano ti stanno vicini.
Le ombre si allungano, il giorno scompare,
le stringi la mano è ora di andare.
Ormai la speranza è una pianta appassita:
è stata davvero una splendida gita.


Non esistono incisioni discografiche di questa canzone. Esistono due incisioni su cassetta, una dell’autore, una di un gruppo di studentesse dell’I.T.C. Gadda di Paderno Dugnano: “Le furbe rosse e blu”.

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