venerdì 16 dicembre 2011

Da Ti racconto una canzone:  4.3.43

Osteria numero uno paraponziponzipò
al casino non c’è nessuno; paraponziponzipò:
ci son solo preti e frati che si *** beati
dàghela ben biondina, dàghela ben biondà.

Osteria numero due; paraponziponzipò
le mie gambe con le tue; paraponziponzizipò:
le tue gambe con le mie fanno mille porcherie
dàghela ben biondina, dàghela ben biondà.

E potrei andare avanti a cantarle tutte queste meravigliose strofe di taverna che io mi porto nel cuore… sono le prime note che ho sentito in vita mia, la canzone che la mia mamma mi cantava quand’ero bambino per farmi giocare davanti alle banchine del porto, mentre mi mostrava le grandi navi da carico o per farmi addormentare la sera nelle lunghe sere del coprifuoco e dell’oscuramento. Io sono il figlio della Gianna Parodi, la ragazzina che perse entrambe i genitori nel primo bombardamento aereo su Genova. Altri parenti non ne aveva e quindi dovette arrangiarsi. A quindici anni si trovò a vivere da sola; serviva in una bettola di via del Campo e quando aveva un momento libero si inerpicava nell’entroterra, risalendo il greto del Bisagno per acquistare un po’ di ricotta che mangiava a cena, quando non la vendeva per comprarsi quelle poche cose di cui aveva bisogno. E fu proprio nell’entroterra che in un fresco pomeriggio di marzo conobbe un soldato ventenne. Si era fermata a bere dell’acqua ad una fontana, lui si staccò da un gruppetto di militari in libera uscita, si avvicinò a lei, le fece segno che voleva bere, lei gli porse una brocca… e fu amore a prima vista. Anche se parlavano lingue differenti, anche se lui veniva da un posto lontano, di là dal mare, i due capirono, o forse parve loro di capire, di essere fatti uno per l’altra. Me ne parlò una volta con pudore, delicatezza e tanta nostalgia, quando io avevo dodici anni, poco prima che lei morisse: dapprima un gioco di sguardi, di tenerezze, poi un’ora dolcissima d’amore su un prato verde come non penseresti di trovarne a pochi chilometri dal mare. Il giorno dopo avrebbero dovuto rivedersi, ma lui non venne all’appuntamento. Una raffica di mitra sparata da un camion nemico aveva spezzato per sempre la sua prima ed unica storia d’amore.
Mia madre, quando lo venne a sapere, pianse e si disperò, e la sua disperazione aumentò il mese successivo quando si accorse di essere incinta.
Il padrone della taverna in cui andava a servizio (e che per carità le aveva permesso di occupare una stanzetta sopra il locale) mi raccontò che la mamma ebbe una forte regressione: la ragazza cresciuta troppo presto tornò bambina. Per tutti i nove mesi mi aspettò come da piccola aspettava il regalo di Natale. Io dopo tutto ero il regalo del suo grande amore.
Nacqui il giorno del suo sedicesimo compleanno. La mamma, a quanto ho sentito raccontare qui al porto, aveva un solo vestito e lo portava da anni; lei cresceva e l’abitino diventava sempre più corto. Con l’unica canzone che conosceva, le Osterie, che sentiva cantare mentre serviva il vino ai clienti, mi cullò, mi fece ridere e giocare, mi fece addormentare. Ecco perché vi dicevo all’inizio che adoro questa canzone.
Nella sua cameretta c’era un piccolo quadro raffigurante la Madonna col Bambino. La mamma non aveva mai fatto caso a quel quadro, ma ora che anche lei aveva un bambino passava ore ed ore ad osservarlo con curiosità. E nel momento in cui mi cullava o mi fasciava, stringendomi al suo petto (di cui mi sembra, ma forse è una suggestione che mi sono creata io nella mia mente, di ricordare il sapore aspro e salmastro come quello che si respira nella zona del molo vecchio)  si sentiva in sintonia con la Signora del ritratto; diciamo che giocava ad imitarla: lei era la Madonna, io ero il Bambino.
Quando si trattò di darmi un nome non ebbe la minima esitazione, non conoscendo il nome del papà la mamma continuò nel suo gioco (o forse, chissà, fu quello il suo personalissimo modo per affidarmi con amore alla Vergine Maria)
La mia mamma è morta da tanti anni; una febbre improvvisa se l’è portata via dopo una vita di stenti e di miseria. Di lei mi restano pochi ricordi: non ho una sua foto, né documenti, né lettere. Il ricordo più grosso che mi ha lasciato è questo nome così insolito.
Io ho fatto il mozzo sui bastimenti, poi lo scaricatore di porto, ora mi arrangio con qualche furtarello e  con il contrabbando di sigarette nella zona di via Gramsci.
Ormai ho sessant’anni: anche se viaggiando un po’ di esperienza del mondo me la sono fatta, resto un uomo del popolo semplice e un po’ rozzo: bestemmio… gioco a carte… spesso mi sbronzo… appena mi girano quattro soldi vado a puttane… eppure nessuno ha mai pensato di chiamarmi con un nome o con un soprannome diverso.
Per  tutti io mi chiamo solo ed esclusivamente Gesù Bambino.


NOTA STORICA:  Questa canzone in origine si chiamava “Gesù Bambino”, ma la RAI impose di cambiare il titolo e parte del testo (io per il mio racconto mi sono ispirato al testo originale, salvo che in un punto che io trovo decisamente infelice e che lo stesso Dalla non sempre riprende: “mi accettò come un dono d’amore solo all’ultimo mese”). La necessità di trovare rapidamente un nuovo titolo spinse gli autori a chiamare la canzone senza pensarci troppo “4.3.1943” che è la data di nascita di Lucio Dalla: ma nel marzo 1943 in Italia non c’erano soldati stranieri, men che meno americani (lo sbarco in Sicilia come è noto avvenne in luglio). Che il soldato sia americano si può facilmente dedurre sia dall’espressione “veniva dal mare” sia dalla musica che nel finale abbandona il folk italiano a favore di un ritmo jazz-boogie. Nel mio racconto ho cercato di restare sulle generali evitando di proposito imbarazzanti riferimenti storici.


4.3.1943
(Paola Pallottino per Lucio Dalla)

Dice che era un bell'uomo e veniva, veniva dal mare
parlava un'altra lingua, però sapeva amare
e quel giorno lui prese a mia madre sopra un bel prato
l'ora più dolce prima di essere ammazzato.

Così lei restò sola nella stanza, la stanza sul porto
con l'unico vestito ogni giorno più corto
e benché non sapesse il nome e neppure il paese
mi aspettò come un dono d'amore fin dal primo mese.

Compiva 16 anni quel giorno la mia mamma
le strofe di taverna le cantò a ninna nanna
e stringendomi al petto che sapeva, sapeva di mare
giocava alla Madonna con il bimbo da fasciare.

E forse fu per gioco o forse per amore
che mi volle chiamare come Nostro Signore
Della sua breve vita il ricordo, il ricordo più grosso
è tutto in questo nome che io mi porto addosso.

E ancora adesso che bestemmio e bevo vino
io per ladri e puttane mi chiamo Gesù Bambino.

Questa canzone è stata incisa da Lucio Dalla, dall’Equipe 84 e, in portoghese da Chico Buarque de Hollanda.


Nessun commento:

Posta un commento